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sabato 14 dicembre 2013

Tutta la luce che illumina il giorno, un tempo dormiva in un punto solo

La luce, lo sappiamo, si propaga in linea retta. Pensate ai raggi che entrano dalla finestra di una stanza in penombra, così ben definiti. A guardare una sorgente luminosa da lontano, essa ci apparirà quindi come un punto brillante che irraggia luce in ogni direzione dello spazio. Come una stella. Guardarla direttamente fa quasi male agli occhi, guardare la sua luce allontanarsi invece è più facile. Questo perché i raggi tendono a divergere gli uni dagli altri, disperdendosi. Per cui mano a mano che ci allontaniamo dalla sorgente, la luce è sempre meno concentrata. È come quando si soffia dentro ad un palloncino su cui sono stati disegnati dei puntini. Quanto più si gonfia, tanto più i puntini si allontanano tra di loro.



Ora ribaltiamo il nostro punto di vista. Pensiamo di voler raccogliere la luce che ci arriva da quella stella. Più che rincorrere ogni raggio di luce mentre scappa nella sua direzione, perché non pensare di catturarla all'origine? Come? Avvolgendo la fonte in qualcosa di sferico, una sorta di retino caccia-luce. Quanto grande? Dipende da quanto siamo lontani dal centro. Più ci avviciniamo al nucleo infatti, al cuore pulsante della stella, e più potremo ridurre le dimensioni del nostro retino visto che l’energia è tutta lì, non si è ancora dispersa. Posto che il nostro retino resista a quell'intensità energetica, si farebbe peraltro molta meno fatica che ad averne uno gigantesco che avvolga la stella intera.

Problem busters
È un po’ quello che succede con i problemi. Poniamo di avere 1’000 problemi da risolvere. Se ci accorgiamo che in realtà questi derivano da una causa comune, non ha senso risolverli uno a uno. Nè ha senso aspettare che si ingigantiscano o si disperdano, prima di fare qualcosa. Per essere davvero efficaci, bisognerebbe invece andare quanto prima alla causa comune e cercare risolverli tutti una volta per tutte.
D'altronde è banale, semplice logica. Eppure lo dimentichiamo, continuamente. Lo facciamo tendenzialmente perché confondiamo la causa con l’effetto, la fonte di energia con la forma in cui questa si propaga, l’idea con la sua realizzazione. Pensiamo che la lampadina accesa e la luce che emana siano la stessa cosa. Non lo sono.  E allora diamo la caccia col nostro retino ad ogni singolo problema come se fosse in sé una causa primaria, mentre in realtà non è che l’effetto di una causa più profonda e per questo meno visibile. Soprattutto ad occhi superficiali. Soprattutto ad occhi distratti.
Succede quindi che per risolverli tutti, quei 1’000 problemi, dobbiamo spendere 1’000 volte energia. Talmente tanta che spesso lasciamo perdere. Magari usiamo perfino 1’000 retini diversi. Il tutto mentre la loro causa profonda – irrisolta – continua a pulsare, a irraggiare e a crearne altri – di problemi – che noi torneremo a cacciare come sempre. “Problemi irrisolvibili”, ci diciamo allora. Oppure: “Ce ne sono troppi, da dove iniziare?” Oppure ancora, “Ne arriverà comunque un altro, tanto vale evitare di dannarci a risolvere questo”. E loro, nel frattempo, restano lì a tormentarci. È evidente che si capisse che esiste, e dove sta, una causa comune sarebbe tutto molto più semplice.
Perché a volte non immaginiamo nemmeno che esista. Altre volte, pur intuendo che debba esserci un nucleo che irraggia da qualche parte, non riusciamo a trovarlo. Magari cerchiamo nella direzione sbagliata. O seguiamo percorsi troppo tortuosi anche se, l’abbiamo detto, i raggi di luce viaggiano in linea retta. Per cui osservando dove si incrociano ci sono buone possibilità di trovarne la fonte. E se funzionasse così anche con i problemi?

Geometria conoscitiva
Pensiamo di stare su di una sfera immaginaria, la sfera delle questioni irrisolte. Una sfera fatta di tutti i problemi che ci tormentano, come puntini sulla superficie collegati tra loro da una rete. Sforziamoci di conoscerla, questa rete, di tessere le relazioni tra una questione e l’altra in modo da contestualizzare, da relativizzare, da associare e dissociare, da mettere in prospettiva. Ma non fermiamoci lì. Ogni questione irrisolta è infatti collegata alla sua causa profonda, quella che sta al centro della sfera. Il nucleo pulsante di ogni questione, che si materializza in mille forme diverse nel suo irradiare problemi come raggi di luce. Ognuno dei quali diventa un puntino sulla superficie della sfera, nel suo propagarsi. Proprio come una stella. Chiaramente, lo avrete capito, è uno schema molto semplificato, ma funziona. Possiamo pensare a diversi livelli di aggregazione, passando da un problema ben concreto su cui indagheremo più in dettaglio fino alle questioni fondamentali che tratteremo in maniera necessariamente più generica. A volerla complicare di più, si tratta in realtà sempre di sfere nelle sfere. Sfere più piccole contenute in quelle più grandi. Ma lasciamo perdere per il momento. Quello che ci interessa veramente ora è di unire tutti i puntini con il centro della sfera, con la loro causa profonda. Quella che poi, l’abbiamo detto, laggiù tende a essere la stessa per tutti. Perché ci interessa? Beh, ma è molto semplice: per costruire un retino abbastanza resistente da poterla ingabbiare, quella causa, il più possibile vicino all'origine.

Il menù del giorno
Oggi viviamo costantemente immersi in una miriade di problemi che ci angosciano e non ci lasciano tregua. Basta accendere la tv per saperlo (è solo un esempio, in realtà non fatelo per favore). Crisi, disoccupazione giovanile, aziende che chiudono, tasse che aumentano. E poi guerre, terroristi, delinquenti e degrado urbano. E poi frane e alluvioni, i morti e i feriti, le emergenze continue. E il governo che non fa, la politica che non rappresenta, l’economia che non va. E poi ancora l’ambiente, il cambio climatico, la deforestazione e tutto il resto. Tutti temi importanti. Tutti difficili da risolvere. Quanti soldi – ci chiediamo –  quante risorse, quanta volontà politica servirebbe per tappare tutte queste falle? Che poi ognuno ha la sua idea sul come fare. E magari poi va a finire che per una che ne tappi ne saltano fuori altre 10. Eccoci caduti nella solita spirale di disperazione inconcludente...

Proviamo però a tracciare la nostra mappa conoscitiva. La nostra rete sferica. Ci accorgeremo presto, relativamente presto, che si evidenzia un centro comune a tutte queste questioni. Un nucleo da cui propaga e si espande tutto quello di cui veniamo continuamente bombardati. Un nucleo che è rappresentato dal nostro sistema socio-culturale, ossia l’insieme delle leggi e convenzioni umane su cui abbiamo basato la nostra società. In altre parole: quello a cui diamo importanza, e quello a cui non ne diamo, senza nemmeno sapere il perché.
Perché (ad esempio) si lavora sempre di più, anche quando ormai ci si riesce a garantire la copertura delle proprie necessità, a scapito del tempo libero? Passare tempo con la famiglia e gli amici, attività ricreative e rilassanti, culturali... perché sembra non esserci mai tempo per queste cose? Sembra stupido anche solo farsela, una domanda del genere: la risposta è talmente ovvia! “Perché bisogna lavorare”. E se si diventa bravi e serve meno tempo per fare la stessa cosa non vuol dire che si può lavorare meno tempo, vuol dire che si potrà – a conti fatti – lavorare di più nello stesso tempo. È solo un esempio, piuttosto attuale, ma solo un esempio. Viviamo costantemente immersi in tutto questo, da sempre. Convenzioni sociali e leggi umane. Tutte create da noi. Non ce ne accorgiamo nemmeno più, tanto che è davvero difficile metterle in discussione. Sono i fondamenti della nostra civiltà, quelli da cui tutto il sistema in cui siamo nati e cresciuti dipende. Per immaginare alternative serve un notevole capacità di astrazione. E serve conoscenza. Eccoci al punto della questione: la conoscenza.

Fatti non foste a viver come bruti
Il fulcro irradiante di tutti maggiori i problemi che vediamo oggi è proprio il paradigma socio-culturale su cui si basa la nostra società. Il capitalismo cannibale, di cui il consumismo sfrenato e compulsivo non è che il braccio armato. Da lì nascono le guerre e la fame nel mondo. Da lì nascono povertà e ingiustizia sociale. Da lì nasce l’economia del saccheggio, quella che non è in grado di sostenersi sul lungo periodo. Da lì nasce la corruzione e l’inadeguatezza della classe politica, collusa con i poteri forti economici. Da lì nasce l’omologazione culturale e l’appiattimento, l’eradicazione delle diversità. E da lì nasce il più importante degli strumenti di controllo: l’ignoranza.

Come per ogni sistema dominante in ogni epoca storica infatti, anche quello odierno tende a preservare sé stesso, propagandosi nel tempo e nello spazio. Per farlo ha bisogno di propaganda, ha bisogno di supporters e tifosi ciechi. Gente che deve svolgere il compito che gli è stato assegnato senza avere una visione d’insieme, senza preoccuparsi del resto. Ingranaggio di una macchina perfetta, progettata dall'alto. Gente che deve conoscere solo il lato buono del sistema, rimanendo all'oscuro di tutto il resto. Ed eccovi servita l’ignoranza. Eccovi servita la distrazione. Eccovi servito il futile. Eccovi servita la sfera intricata dei 1’000 problemi apparentemente indipendenti da dover risolvere. Ma anche la matassa inestricabile delle preoccupazioni quotidiane che non ci lascia né tempo né modo di andare oltre, di giungere alla fonte. Quella che ci succhia ogni energia, rendendoci impossibile destinarne una parte men che minima a indagare questioni che vengono infatti percepite come secondarie, inutili perché lontane, troppo astratte. La fonte viene ignorata, perché non se ne conosce l’importanza. Laddove dovremmo concentrare le nostre energie per far crollare come un castello di carte il costrutto di tutti i nostri tormenti, lasciamo che siano sporadiche incursioni a farla da padrone, motivate più dalla noia o dal senso di colpa che altro. È così che la fonte si protegge. E continua a irraggiare su tutte le nostre vite.

La conoscenza è l’arma più potente che abbiamo a nostra disposizione per scardinare questo schema che ci vede subalterni. Per riacquisire la nostra dignità e tornare a decidere per noi stessi. Per il bene nostro e di tutta la comunità di persone a cui teniamo. Grande o piccola che essa sia. Conoscenza è tessere una rete solida che unisca i puntini sparsi sulla nostra sfera. E sapere che al tirare un filo ne seguono altri, mentre altri rimangono immobili. Ma è anche andare in profondità, verso la fonte, collegandovi ogni puntino. Dalla superficie al cuore, che è uno solo. Ed è lì che la conoscenza diventa coscienza. Ed è solo con la coscienza profonda che si conducono e si vincono le battaglie. È solo con una grande coscienza che si diventa forti nel portare avanti le proprie cause. 

È solo con la coscienza che si progredisce e si immaginano, poi si creano, le condizioni per un mondo migliore. 

Perché conoscere è sapere di potere.


venerdì 12 luglio 2013

Pubblico qui la traduzione in italiano della prefazione alla mia tesi di dottorato, il cui tema è l'energia ondimotrice (quella delle onde del mare). Spero possa essere uno stimolo ad unire i puntini di quello che stiamo vivendo, nonché una fonte di determinazione a prendersi la propria parte di responsabilità.

* * *

Il Mondo dell’energia a buon mercato è finito

benvenuti in un futuro più luminoso

Sin dalla rivoluzione industriale del XIX secolo la fame del Mondo di energia a basso costo che potesse alimentare un’economia in continua crescita è aumentata a un ritmo costante. I combustibili fossili diventarono presto la nostra principale fonte di energia, essenzialmente per via di una densità energetica estremamente alta e della loro facilità di trasporto ed accumulo. La disponibilità di una simile fonte di energia in abbondanza permise la crescita esponenziale dell’economia e il progresso tecnologico nei cosiddetti paesi sviluppati. Allo stesso tempo, tuttavia, determinò a livello globale conseguenze negative di tipo ambientale, sociale e politico, che sono state ampiamente sottovalutate per molti decenni. Tra di esse le più evidenti sono forse l’esaurimento delle risorse, l’inquinamento, la diseguaglianza e instabilità geo-politica; tutte comunque radicate profondamente nel paradigma consumista e nella sottostante ipotesi della possibilità di una economia in perpetua crescita, alla quale l’era dell’abbondanza di combustibili fossili ha abituato tutti noi. Con la crisi sistemica che il Mondo occidentale sta attualmente affrontando, è diventato evidente che questo tipo di paradigma è vecchio e ha bisogno di essere aggiornato.

Le energie rinnovabili non rappresentano solo una nuova forma di energia, ma rappresentano il necessario cambio di approccio richiesto all'umanità nei confronti del proprio ambiente.

Essendo molto meno dense energeticamente, più difficili da immagazzinare e fortemente connesse nella loro disponibilità alle condizioni geografiche locali, la loro implementazione richiede un diverso tipo di infrastruttura. Ci si dovrà evolvere da un sistema centralizzato, dall'alto verso il basso, a un sistema distribuito più democratico e flessibile, riflettendo lo sviluppo dei nostri modelli sociali nell'era di internet. Saranno necessarie reti intelligenti locali che garantiscano una più efficiente e dinamica coordinazione tra la fornitura e la domanda di energia, ma anche super-reti in grado di promuovere la cooperazione tra diverse regioni geografiche e in grado di fornire in modo dinamico un cuscinetto di energia, qualora richiesta. I trasporti dovranno essere ridotti drasticamente, evolvendo verso sistemi di trasporto collettivi e tendenzialmente elettrici. In generale, si dovranno sviluppare e introdurre tecnologie più efficienti.

Ma a parte il pur necessario adattamento delle infrastrutture e gli avanzamenti tecnologici richiesti, la più grande sfida di una transizione verso un Mondo più sostenibile sta probabilmente nella necessità di evolvere delle persone e delle politiche, di sviluppare una diversa mentalità e una diversa attitudine nei confronti della realtà. Le energie rinnovabili sono un flusso, non un accumulo di energia; ciò costringerà la società a tornare in uno stato di equilibrio dinamico con la natura e con il proprio ambiente, in accordo coi limiti della fisica più che quelli della propria immaginazione o stabiliti da “leggi umane”. Il Mondo intero dovrà presto affrontare la necessità di consumare meno energia, consegnando alla storia il concetto di crescita perpetua e le tendenze esponenziali che hanno caratterizzato la nostra società per decenni.

Tutto questo dispiegherà una serie di cambiamenti sociali e politici che sono ora troppo lontani da potersi interamente immaginare. In ogni caso, è probabile che abbia luogo una profonda ri-localizzazione dell’economia globalizzata, implicando un diverso equilibrio tra aree urbane e rurali, la riprogettazione del sistema di produzione e distribuzione di beni e cibo, nonché un più efficace sistema di gestione delle risorse. Anche il sistema economico e finanziario richiederà una riforma sostanziale e il comportamento stesso delle persone dovrà evolvere in accordo con la nuova realtà. Alla fine, potrebbe persino emergere una nuova concezione rispetto a come gestire la società e degli obbiettivi fondamentali che essa si prefigge.


Le energie rinnovabili incorporano ognuna e tutte queste sfide. Ignorarlo sarebbe dannoso non solo per il loro sviluppo e la loro implementazione, ma per la futura prosperità della nostra società. Potranno rappresentare un qualcosa di tecnico per molti; per me, rappresentano una precisa responsabilità politica di chiunque viva il nostro tempo.


Stefano Parmeggiani




sabato 8 dicembre 2012

It’s evolution, baby!

A volte penso che siamo spacciati. Siamo come un’auto lanciata a folle velocitá contro un muro. In origine non lo sapevamo che stava lí, ma é da un po’ di tempo ormai che lo vediamo forte e chiaro. Evitarlo ormai non si puó, troppo tardi. Le cose sono due: o per lo meno rallentiamo e cerchiamo di ridurre i danni, oppure continuiamo a far finta di niente, ostriche e champagne fino al momento dello schianto.

Ultimamente peró, mi ha colpito pensare che forse dietro questa corsa ci sia ben piú di quel che sembra. Qualcosa che non si vede eppure muove da sempre i fili della storia, instancabile: l’evoluzione della specie.
Darwin diceva che sono i meglio adattati alle condizioni in cui vivono ad avere piú possibilitá di campare e, quindi, di conservare la specie. Bisogna fare un passo in piú qui. Dal punto di vista biologico infatti non é tanto la sopravvivenza dell’individuo ad essere importante, quando quella dei suoi geni. É proprio lí infatti che risiede la descrizione delle caratteristiche peculiari che gli hanno consentito di adattarsi al proprio ambiente cosí bene da poter sopravvivere. Ed é quindi tramandando i propri geni vantaggiosi che questo organismo fa un favore alla propria specie, visto che in futuro i discendenti meglio adattati saranno sempre in numero maggiore, fino a diventare la norma. É cosí, la specie é qualcosa di piú degli individui. Piú grande, piú importante. E quando si evolve, cioé in continuazione, la cosa non é affatto indolore per gli individui che la compongono.

Allora mi chiedo se non sia proprio questo il punto. Viviamo in un mondo che cambia velocemente come mai. É quindi sempre piú necessario sapersi adattare. Chi non riesce a farlo, rimane indietro. Chi ci riesce invece sará la base fondante per la specie del futuro. Quella da cui si ripartirá dopo lo schianto col muro.

É curioso spiegare come accade che qualcuno si riesca ad adattare meglio di altri. Tutto sta nel fatto che in natura, quella cosa a cui anche gli uomini appartengono, la diversitá non é un problema, ma una ricchezza. Se punti tutto sullo stesso numero in una roulette puoi vincere tanto. Ma hai anche tantissime possibilitá di non vincere proprio nulla. Per questo la natura decide di puntare su quanti piú numeri possibile. É per questo che nel processo attraverso cui i geni vengono tramandati cerca sempre di mischiarli il piú possibile. A volte poi accade anche qualche imprevisto, percui il codice non viene riprodotto come dovrebbe: sono le mutazioni genetiche. Intendiamoci, una mutazione genetica non é buona o cattiva in sé. É semplicemente quello che é: un qualcosa di inaspettato. Sebbene siamo portati a immaginarci deformazioni e cose aberranti quando pensiamo alle mutazioni genetiche (magari retaggio di quelle provocate dall’uomo coi suoi bei giocattoli nucleari), in realtá sono un valido strumento in piú nelle mani dell’evoluzione. Perché puó accadere che siano associate a caratteri sfavorevoli, e in quel caso non vengono tramandate visto che l’individuo muore o comunque avrá maggiori difficoltá di riprodursi, ma puó anche succedere che siano favorevoli. E in quel caso rappresentano un bel vantaggio competitivo, non c’é che dire. Un colpo di fortuna. Non stiamo parlando degli x-men chiaramente, ma con le dovute proporzioni il discorso é in realtá abbastanza simile.

La stessa cosa puó succedere con i comportamenti: alcuni favoriscono la sopravvivenza della specie, mentre altri no. Chiaramente qui la cosa é, almeno in teoria, piú semplice visto che non ci sono mutazioni genetiche random di mezzo. Se si vede che un certo  gioco funziona, sarebbe normale iniziare a giocare secondo le sue regole. La realtá non é poi cosí semplice, almeno non per tutti. Probabilmente anche in questo ci sono individui piú predisposti di altri a cambiare, a esplorare, a curiosare e a provare cose diverse. Ma non c’é dubbio che, visto in termini evolutivi, l’eclettismo é la tendenza ad auto-aiutarsi.

Ma che siano caratteri o comportamenti, viene da pensare che il loro valore evolutivo probabilmente diventa evidente solo nel momento in cui serve davvero. Fino ad allora rimane qualcosa che non si capisce, senza valore. Finché non ti rendi conto che in effetti campare senza é dura. Ma ormai é troppo tardi.
C’é da aspettarsi che inizialmente si veda perfino con sospetto, essendo fuori dagli standard. Qualcosa di strano, di stravagante, di anormale. E tutti sappiamo quanto ci piaccia essere considerati normali, ricadere dentro il rassicurante sacco della media.
Pensateci: immaginatevi la prima comunitá di pesci che si sono spinti a vivere fuori dall’acqua. Muoversi non doveva essere la cosa piú semplice: sicuramente dovevano dimenarsi di continuo, scodare a scatti per saltellare di lato. Eppure pensate al primo che ha messo su le zampe... l’avranno guardato stortissimo! Denigrato e sbeffeggiato: “ma guarda te sto fricchettone che si mette in testa! Mica lui scoda come tutti, no! Ma dove vuole andare, con quelle cosacce che gli spuntano dalle pinne! É bruttissimo! Ti diró che poi, secondo me, é pure cattivo!” Eppure presto sarebbe stata l’evoluzione stessa a zittire tutte le malelingue. Ma daltronde é cosí, il diverso fa paura. Percui si osteggia, di deride, si perseguita al di lá di quello che la razionalitá suggerisce. Eppure se cercate di vedere il futuro, é proprio lá che dovreste guardare.

Mi chiedo allora se non siamo di fronte allo stesso processo, senza accorgercene. Si sta sviluppando in una parte sempre maggiore della popolazione mondiale una certa coscienza ambientale. Qualcosa che va al di lá delle patine verdi di facciata, qualcosa di profondo e vero. Un autentico senso di appartenenza, di rispetto e di ammirazione per la natura. I fricchettoni degli anni ‘60 (come venivano affettuosamente chiamati dai loro denigratori) hanno dato il via a questo processo. Beh, a giudicare dalla diffusione sempre maggiore, verrebbe da dire che l’evoluzione sta dalla loro parte. E se é cosí, di certo non é per partito preso. É perché quel modo di vivere e di rapportarsi col mondo, quella coscienza profonda probabilmente é in grado di assicurare una miglior capacitá di sopravvivere nel mondo di oggi. Il fatto che siano stati a lungo derisi, mentre ora – di fronte all’evidenza – vengono in qualche caso osteggiati, in altri strumentalizzati, non fa che accrescere la mia convinzione.

Mi piace allora pensare che sia cosí. E che in futuro questa coscienza si diffonderá ancora di piú fino a diventare comune a tutta la specie. Proprio perché vantaggiosa. Ma non mi faccio illusioni sul come. Il fatto che dobbiamo capire infatti, e al quale probabilmente ci dobbiamo preparare, é che il processo non sará affatto indolore. Per fare un esempio, non mi aspetto che possa essere una diffusione uniforme come quella che avviene da una bustina di té nell’acqua calda, in cui il té si propaga dalla fonte fino ad estendersi a tutto il sistema. Ammesso che potesse funzionare come strategia, non ne abbiamo tempo. Piuttosto sará una diffusione dovuta alla riduzione delle dimensioni del sistema, fino ad includere la fonte e poco piú. Come quando metti un cucchiaino di miele in un secchio pieno di acqua. Che differenza vuoi che faccia? Ma se fai un buco appena sopra il fondo dove si é depositato il miele, l’acqua esce tutta fino ad arrivare appena sotto il buco. Percui é chiaro che in quel modo l’acqua rimasta sará piú dolce di prima. Ma solo perché ce ne sará molta, molta di meno. L’acqua che ci sará permesso tenere dentro al secchio sará tanto maggiore quando piú riusciremo a metterci d’accordo sul frenare quella macchina lanciata contro il muro prima dello schianto inevitabile. Limitare i danni.

Ma anche dopo le tragedie, le catastrofi, la distruzione cui siamo destinati, la specie continuerá il suo cammino. E sará una specie diversa, senza dubbio. Sará una specie meno miope e piú lungimirante. Una specie che saprá vivere in armonia con la natura perché ne avrá infine compreso l’importanza. Sará una specie che é stata in grado, con le buone o con le cattive, di cambiare rotta.

Per lo meno mi conforta allora pensare che, d’ora in poi, ogni volta che mi sentiró deriso o denigrato per manifestare la mia convinzione che quello che stiamo facendo come uomini é essenzialmente e profondamente sbagliato e controproducente, almeno sapró di avere Darwin dalla mia parte.



“Ogni volta che la gente è d'accordo con me provo la sensazione di avere torto.”
Oscar Wilde.




domenica 7 ottobre 2012

Cambiare il mondo senza prendere il potere

Certe cose le senti dire talmente tante volte che alla fine arrivi a convincerti che siano vere. Che debbano esserlo per forza. Frasi di tv ripetute migliaia di volte da migliaia di voci autorevoli (o pseudo-tali) diverse. Titoli di giornali. Radio e tiggí. Industriali, accademici e politici. Fiato alle trombe della vane necessitá contingente. Dobbiamo crescere, tirare la cinghia, produrre. E poi ancora, l’Europa ce lo chiede, la fiducia dei mercati, l’occidente sviluppato e i paesi emergenti, il terzo mondo e il sottosviluppo, l’economia di mercato e il protezionismo. Oppure ancora cambiare il modo di fare politica, la legge elettorale, creare posti di lavoro.

Stronzate. Frasi prive di senso ripetute anche (e sopratutto) fuori dal loro contesto, astratte e inconsistenti diventano familiari e rassicuranti, prescindendo da ogni significato. Che lo sappiano o meno, perché non é scontato che se ne rendano conto, tutti questi signori parlano per niente. Parlano di niente. Quello che fanno é asservire come docili agnellini un disegno che va oltre il tempo e lo spazio. Un disegno che parrebbe tracciato machiavellicamente da persone molto piú colte e potenti, i famosi poteri occulti. In mancanza di prove della loro esistenza, mi pare tuttavia lecito pensare che siano il frutto di una sorta di intelligenza colletiva degenerativa, emersa dall’evoluzione di una societá basata per decenni e sempre piú su paradigmi speculativi tipici dell’economia di mercato. L’idea che la sussistenza sia da poveri, che non sia in grado di garantire una sufficiente qualitá della vita. Qualitá della vita peraltro sempre piú misurata in termini materiali, basata sulla possessione di cose innecessarie ad una reale qualitá della vita, finti bisogni creati ad arte che siamo disposti a lavorare 24 ore al giorno o a indebitarci a vita per poterci garantire. Anni di doping consumistico e di capitalismo sregolato che ci hanno inconsciamente costretto ad una vita, a ben guardarla, miserabile. Ci preoccupiamo piú del domani che dell’oggi. L’idea che il surplus sia talmente importante da immolare sull’altare di un futuro benessere l’ora e il qui. La felicitá é costantemente posticipata, volutamente peraltro.

Adbichiamo quotidianamente al diritto ad una vita degna e di qualitá (per noi stessi, senza andare a parare in paesi o situazioni lontane) sull’altare di falsi miti creati ad arte. Siamo costantemente immersi nostro malgrado, e spesso a nostra insaputa, in una comunicazione di massa mirata ad una redistribuzione delle risorse (e della ricchezza) dal pubblico al privato, privato sempre piú concentrato nelle mani di pochi non-eletti.


LA CENTRALIZZAZIONE DEL POTERE

Al potere si pensa ormai necessariamente come a qualcosa di centralizzato. Qualcosa che risiede in una sede, nelle mani di qualcuno, o comunque di pochi, ma mai nostre. Chiedetevi il perché. Politica, economia, energia e risorse, perfino il sistema alimentare. Fanno tutti capo a un qualcuno, una elite, che ha le chiavi in mano e che per quanto ci riguarda potrebbe anche decidere di chiudere baracca e burattini quando le pare. Puó decidere per tutti, é l’assenza di democrazia ad ogni livello della nostra vita. Abbiamo perso la stessa concezione di decidere per noi stessi, di assicurarci in prima persona il nostro benessere, cosí come pensiamo sia piú giusto. Siamo in ogni aspetto della nostra vita in balia di cose che non controlliamo.  Non siamo padroni di noi stessi.

In politica deleghiamo il nostro potere decisionale, ci hanno fatto credere che sia una buona cosa e oggi come oggi accettiamo a tal punto da non riuscire nemmeno ad immaginare sistemi alternativi. La soluzione, di fronte alla corruzione dilagante della classe politica, é semplicemente quella di cambiare le facce, di mischiare un po’ le carte. Non si guarda nemmeno alla causa, un sistema percui il potere viene concentrato nelle mani di pochi, ma all’effetto: i nomi di quei pochi.

Parlando di economia, nessuno ci capisce niente ormai, e si ripetono a vanvera concetti che si sentono dire. Discorsi per gli addetti ai lavori e i professori. E questo, chi ha in mano le redini dei mercati finanziari, lo sa bene e sa di poter agire incontrastato. Sono loro il vero motore dell’economia oggigiorno, svincolato totalmente dall’economia reale, quella che sarebbe funzionale alla qualitá della vita delle persone. E gli va bene cosí, gli va bene che si creino ad arte discussioni fasulle. Crea l’austeritá e ti pregheranno per crescere. E crescita, lo sappiamo, significa soldi a palate per questa gente. Significa depredazione di diritti e risorse, significa avvelenamento e violazione, significa alienazione consumistica per il resto delle persone di questo pianeta.

L’energia é prodotta in impianti enormi che soddisfano i bisogni di tutta la popolazione. In alcuni casi (vedi impianti nucleari) devono essere persino protetti dall’esercito. Lo stato decide per tutti anche qui. Se qualcosa cambiasse, se qualcuno assumesse il controllo di questi impianti, potrebbe mettere in ginocchio un'intera nazione nel giro di qualche ora. Le rinnovabili sono osteggiate anche per questo, permetterebbero uno svincolamento da questa dipendenza, la delocalizzazione della produzione elettrica che darebbe il via a un sentimento di maggior autosufficienza. E per questo persino laddove si affermano, sono perlopiú in mano dei privati, non della gente. Sono rari i casi in cui siano le stesse comunitá a gestire impianti fotovoltaici o eolici. Specie per i secondi, sono sempre piú posseduti da privati. A pensarci bene, é la privatizzazione del vento come risorsa. Ma nessuno ci pensa bene a queste cose.

L’intera popolazione mondiale potrebbe autoalimentarsi se ognuno coltivasse per sé un piccolo orto. Senza grande bisogno di manodopera, attraverso tecniche tradizionali rispettose della natura, della sua stagionalitá, della sua diversitá. Ri-adattando il nostro stile alimentare a quello che la natura ci offre, non a quello che pretendiamo. Ci sarebbe molta meno incidenza sulla produzione alimentare di fattori negativi come l’oscillazione dei prezzi del petrolio (per fertilizzanti, pesticidi, macchine da lavoro e trasporti) rispetto alla grande distribuzione basata sulle monoculture. L’apparente abbondanza di oggi, figlia della grande distribuzione, é in realtá convertita in sprechi da una parte e in impossibilitá di accesso dall’altra.


RADICAMENTO DELL’IMPOSSIBILITÁ DEL CAMBIAMENTO

Attraverso questo continuo lavaggio del cervello, attraverso la progressiva e costante centralizzazione del potere, attraverso la denigrazione di un passato piú sostenibile del presente, o degli stili di vita di quelle comunitá che tuttora lo sono. É cosí che passa l’idea che siamo condannati a continuare a percorrere questa strada. L’impossibilitá del cambiamento é figlia della radicazione nei nostri cuori e nelle nostre menti di stili di vita fasulli, scollegati dalla natura e incontrollabili da parte nostra. Che ci rendono dipendenti da qualcosa che non vediamo, pedine di un gioco che non conosciamo. Fragili e insicuri. Meglio un male che conosciamo (o perlomeno crediamo di conoscere) che un presunto bene lontano e sconosciuto.



Signore e signori, l’impossibilitá del cambiamento é una balla. Ma non dobbiamo aspettarci che nessuno ce lo regali, quello no. Non dobbiamo nemmeno sperare di arrivare al potere per poter cambiare le cose, sarebbe impossibile stando alle regole del gioco che stiamo giocando. Il cambiamento parte dalle cose trascurate e inutili. O meglio, quelle che ci passano come tali. Passa dal vedere che in realtá non abbiamo bisogno di quello che ci dicono, ma di altro. Dal capire che possiamo avere una vita davvero migliore, e che ce la meritiamo. Tutti. E iniziando a perseguirla, nel nostro quotidiano e nel nostro piccolo. Cambiando noi stessi e le nostre aspirazioni, il nostro stile di vita. E condividendo la nostra esperienza con chiunque. Per farlo poi, un giorno, diventare normale. Non é cosí difficile come sembra, c’é un mondo lá fuori che ha giá iniziato a farlo. Il fatto che non ne abbiate sentito parlare, beh quella é tutta un’altra storia.






mercoledì 15 agosto 2012

Questa storia

Siamo alle strette, perché il futuro si decide ora. La storia, daltronde, é un filo sottile che corre senza riavvolgersi mai. Per quanto possa piacerci il concetto di passato o futuro quello che esiste per davvero, e sempre, é il presente. La storia la scriviamo oggi, ora, in questo momento. E la scriviamo noi, nessun altro.
Non esiste nessun cammino predefinito, non esiste niente di certo né niente di irreversibile. Abbiamo del tempo a disposizione per scrivere il nostro pezzetto di storia. Non chiedetemi il perché, quella é tutta un’altra questione. Quello che mi interessa é il come.

Perché é indiscutibile il fatto che ora tocchi a noi. Tutti hanno avuto la loro occasione, chi l’ha usata meglio e chi peggio. Ci sono stati i nonni che vivevano tranquilli nel loro mondo idillico fatto di campagne e conigli, sani come pesci e felici come perdici. Errore. Ci sono stati i nonni che hanno sudato come matti perché, semplicemente, quella era la loro parte di storia da scrivere. Dovevano sudare come dei matti per arrivare a fine giornata e mettere insieme il pranzo con la cena. Erano tempi duri e loro erano persone di quel tempo, un tempo che non c’é piú. E ce l’hanno fatta. Hanno coltivato campi, costruito case, creato fabbriche e produzioni che ci hanno portato nell’era del boom. C’erano – come continuano ad esserci e ci saranno sempre –quelli geniali e gli sgobboni, i furbi e gli onesti, le brave e le cattive persone. Ma hanno dato forma al loro mondo, probabilmente nell’unica direzione possibile: il benessere. E il benessere é progresso. Il progresso ci ha portato all’industrializzazione prima e la globalizzazione poi. E nel mezzo c’é stata un’altra generazione, un altro tempo e un altro pezzetto di storia. É stato il tempo dei padri, che hanno avuto altre cose da fare e le hanno fatte altrettanto bene. Ci hanno aperto il mondo e regalato la vita comoda che conosciamo, ma non apprezziamo. Ci hanno regalato il loro sogno di bambini ma noi, in quel sogno, ci siamo cresciuti dentro e ci sembra talmente normale da diventare noioso. Qualcuno dirá che siamo una generazione viziata, credo che in parte sia vero. Siamo quelli delle vacanze per tutti, del telefonino all’ultima moda prima di tutto, siamo quelli dei supermercati sempre pieni e dei voli low-cost. Ma siamo, soprattutto, quelli che non si fanno domande. Siamo quelli che hanno accettato in partenza di scollegare la causa dell’effetto, il braccio dalla spada. Siamo quelli che accendi la luce e spingi sul gas senza chiederti da dove venga, quelli delle possibilitá infinite per diritto divino e quelli dell’ultimo gadget perché sí. Siamo quelli che vivono tranquilli in vacanza permanente dalla realtá. Non perché siamo cattive persone, ma perché non l’abbiamo mai visto né nessuno si é mai preso la briga di spiegarcelo sul serio. Non é mai stato conveniente, dopotutto, spiegarcelo. Allora andiamo avanti, ad occhi chiusi, su una strada distesa bella dritta di fronte a noi. Camminiamo intontiti e felici eppur sentiamo (perfino i piú testardi) alzarsi tutto intorno a noi un ineluttabile fetore.

Ed é qui che inizia la nostra storia. La nostra storia é quella dei figli. I figli che quegli occhi li aprono e vedono quello che c’é tutto attorno alla quella strada stesa dritta, quello che giá annusavano prima e cui non riuscivano a dare un nome. La nostra storia inizia ora, qui. Se stai leggendo preparati, perché non potrai dire di non essere stato avvisato. Non potrai fare quello che é stato lasciato a piedi mentre gli altri salivano sul carro della storia. La storia, da questo momento in poi, la prendiamo in mano noi. Non perché siamo migliori, ma perché é arrivato il nostro momento. É nostro diritto, ma anche nostro dovere. E la storia non ti chiama, la devi fare tu.

La storia che scriveremo potrá sembrare per tanti versi radicalmente opposta a quella passata, per altri esattamente uguale. La storia che scriveremo, la nostra storia, nasce dal nostro tempo. Tempo di informazioni che collegano il mondo e viaggiano alla velocitá della luce. La nostra storia si nutre di pensiero critico e razionalitá, di passione e di coscienza. La storia che scriveremo é in realtá l’unica che potremmo mai scrivere. Se fallissimo, stavolta potrebbero non esserci nipotini a scriverne il seguito. Il momento é questo, é critico, é capitato a noi ed é una bella responsabilitá di cui peró ci dobbiamo fare carico, per quanto non l’abbiamo chiesto noi. Un peso, ma anche un emozione elettrizzante. E allora potremmo essere ricordati come quelli che hanno fatto la loro parte – come quelli prima di noi, del resto – parte che specialmente ora assume forse un’importanza speciale, da questione di vita o di morte piú che di vita o di vitaccia. Potremmo essere ricordati come quelli che nella tempesta della crisi piú totale prendono il timone e, tra lo scetticismo e perfino le proteste dei marinai piú rodati, invertono la rotta riportando la nave in acque sicure. Era partita in cerca di qualcosa di migliore, ma si era spinta in una direzione che alla lunga si é rivelata sbagliata. Avendolo capito, invertire la rotta non é un tornare indietro, ma una decisione cosciente, un andare in avanti verso la direzione che si conosce sicura. Si tornerá poi ad esplorare in altre direzioni, in altri modi, il timone continuerá a girare ma le mani che lo governeranno sapranno dove non devono dirigere la nave.

Potremmo allora  essere quelli che salvano la nave e l’equipaggio. Potremmo fare semplicemente quel che va fatto, senza aspettarsi altri riconoscimenti dal presente ed per essere poi ricordati come uno dei tanti punitini nella successione che conforma la linea della storia. Oppure potremmo essere gli eterni bambini, quelli che si sentono inadatti e si nascondono dietro le gonne delle mamme. Quelli che declinano colpe e responsabilitá. Quelli che perdono la loro occasione e lasciano che la nave affondi pur di non prendere il coraggio e il timone tra le mani, per paura di lasciarselo scivolare, ma anche perché hanno sempre visto i vecchi comandanti occuparsene.
Potremmo essere quelli che cambiano le carte in tavola, perché abbiamo capito che il gioco é cambiato anche lui. Potremmo essere quelli audaci che lo vedono arrivare per primi, si preparano e rispondono. Oppure quelli perennemente assopiti e intorpiditi dall’ignavia, dalla codardía e dal qualunquismo, dal pessimismo cosmico e dalla pigrizia terrena, quelli che si svegliano troppo tardi, o perfino quelli che non fanno nemmeno in tempo a svegliarsi.
Tutto questo spetta a noi deciderlo. Spetta a noi perché é il nostro momento. Non verrá nessuno a dircelo, e se ci aspettiamo qualche incoraggiamento ci sbagliamo di grosso. Bisogna sentire quando arriva, e prenderselo.

Saremo quelli del cambio di paradigma e di visione sul mondo. Quelli che non vedono nessuna crisi economica o finanziaria, ma prima di tutto una crisi sistemica nella quale é impossibile distinguere alcun tratto principale perché coinvolge tutto, separatamente e allo stesso tempo in maniera interconnessa. Crisi ambientale, alimentare, di risorse, economica, finanziaria, culturale, umana. Crisi del paradigma creato dai nonni e i padri, che magari andava bene prima ma ora non piú. Crisi del sistema in cui viviamo, fatto da uomini come noi ora, ma al loro tempo. Fatto quando venne il loro, di momento. Saremo quelli che capiscono che occorre andare alla causa del problema e risolverlo lí, piú che dedicarsi alle migliaia di piccole conseguenze che inevitabilmente tornano a riproporsi sotto le stesse o nuove spoglie. Saremo quelli che cambiano il sistema perché sanno come farlo, lo sovvertono se serve, lo adattano alle nuove circostanze e lo servono in mano a quelli che verranno dopo. Saremo necessariamente quelli, peché altrimenti non ci sará un dopo, e non ci sará niente e nessuno da ricordare.
Saremo quelli del passo indietro cosciente. Saremo quelli che per tanti versi ritorneranno ai tempi dei nonni e dei padri, attualizzandoli al giorno d’oggi grazie alla conoscienza e il sapere accumulato e alle nuove possibilitá che la storia ci ha offerto. E lo faremo non piú perché non potremo fare altrimenti, ma per una scelta cosciente, autonoma e ben informata. Saremo quelli che possono ma non lo fanno, perché conoscono le conseguenze e non le vogliono. I nonni non potevano scegliere, e cosí in molti casi anche i padri. Noi si, e sceglieremo di non farlo. Questa sará la nostra storia.

Saremo quelli del passo indietro cosciente, che altro non é se non l’unico passo avanti davvero possibile.

domenica 13 maggio 2012

Soffia, di nuovo, un vento nuovo


Piú o meno un anno fa, il 15 maggio 2011, si levó spontaneo, limpido e incontrollabile un vento nuovo nella nostro mondo di tutti i giorni. Un vento di non conformismo. Un vento di implicazione in prima persona. Un vento di ribellione intelligente e informata. Un vento di svolta. Si levó da Madrid, dove in Porta del Sole inizió a confluire un sacco di gente spontaneamente, per affermare pubblicamente il proprio sdegno e la propria non conformitá nei confronti di un sistema e di una classe politica non li rappresentava. Quella stessa classe politica che stava cercando, con l’ennesima farsa, quel consenso popolare che gli serviva per essere rieletti nelle elezioni amministrative che si sarebbero svolte di lí a una settimana. Ci riuscí, come sempre.
La cosa nuova di quel 15 maggio 2011 é che, appunto, una marea di gente scese in piazza. Si voleva riappropriare dello spazio pubblico che le appartiene, della sua individualitá di persona che non si sente rappresentata e vuole farlo sapere, del proprio diritto a partecipare a quel processo di miglioramento della societá nella quale si vive. E fu allora che successe qualcosa di magico: si rese conto che non era sola. Non solo, ma che erano migliaia e migliaia le persone mosse da quello stesso sentimento. Non gli si poteva non dare ascolto. Fu una presa di coscienza travolgente, di quelle che ti danno l’impressione che – se davvero é cosí, se davvero siamo tanti – tutto puó succedere.



Fu una presa di coscienza individuale prima, intima e profonda. Quella che ti spinge a uscire di casa, a dire che no, non si puó piú accettare, che la misura é colma. A pensare che é ora di fare qualcosa, qualsiasi cosa. E soprattutto a sentire che va bene, magari non cambierá nulla, ma che non contino su di me. Che non sperino di fregarmi ancora una volta, con me hanno chiuso. Per me sono finiti, che lo sappiano.
Fu una presa di coscienza collettiva, poi. Come movimento popolare, cioé fatto di persone. Ognuna col proprio diritto a dire la sua e la propria testa per pensare. Ma con tanto in comune da poter parlare con una voce sola. E voce sopra voce il coro assumeva dimensioni incredibili e una potenza tale da non poter essere ignorato. L’unione fa la forza, mai piú vero che in questo caso. Ma fu anche la dimostrazione palese che la diversitá é ricchezza. La diversitá di un movimento eterogeneo e fermamente motivato. E si sa, con la motivazione si muovono le montagne.

Quello che va capito per capire la grandezza di quello che successe quel 15 maggio 2011 (o, meglio detto, di quello che inizió a rendersi esplicito su vasta scala), é che si trattava di gente comune. Gente comune che di problemi non ne voleva e non ne cercava, ma voleva solo riappropriarsi di ció che é suo: il diritto a contribuire a migliorare il proprio futuro. Per la stragrande maggioranza non si trattava di professionisti delle manifestazioni o di gente manipolata da questo o quell’interesse. Gente di ogni estrazione sociale e provenienza. Per la prima volta si trovarono a marciare fianco a fianco i nonni, i padri e i nipoti, i professionisti e gli studenti di questo e di quello, immigrati e nativi.
La molla era la non conformitá con un sistema che prima ancora di rubare il futuro delle persone, ne uccide il presente. Un sistema che vive sulle spalle della gente umile per sostenere gli stili di vita insostenibili dei pochi nelle cui mani si accumula tutta la ricchezza del mondo intero. Un sistema che si autoperpetua evitando qualsiasi reale cambiamento, prendendoci per di piú in giro con la farsa della democrazia rappresentativa. Un sistema che assieme alle persone distrugge il pianeta in cui viviamo.
La gente disse basta. E lo disse ad alta voce e in coro. Impossibile non sentirsi coinvolti. Impossibile ignorarla. Impossibile non vedere un prima e un dopo il 15 maggio 2011. Da quel giorno la protesta fu virale e quotidiana. Si diffuse in tutto il mondo. Pacifica, puntuale, mirata e sempre informata. Da quel giorno nacque il movimento 15M, degli indignati, di quelli che sono stufi di piegarsi e dicono che puó bastare cosí, ci riprendiamo in mano le nostre vite grazie.



C’é tanta demagogia attorno a questo movimento, come sempre. La veritá é che chi controlla i mezzi di comunicazione attraverso i quali ci arrivano le notizie non ha alcun interesse a presentarlo come altro che non sia l’ennesima, simpatica, inconcludente, protesta cittadina. Ben organizzata sí, materiale da poterci scrivere qualche bell’articolo pieno di populismo e frasi fatte. Qualche servizio colorato pieno di cori e slogan e striscioni simpatici. Ma poi basta. Vedrete, si diceva, svanirá presto. Alle elezioni si voterá come sempre, e quelli governeranno come sempre. E non cambierá nulla e arrivará un altro 15M un giorno. La gente rimase nelle piazze per piú di un mese, fino a che la polizia (tutt’altro che pacificamente) svuotó le piazze e mandó via tutti. Ecco qua, come non detto. Svanito nel nulla il 15M, l’indignazione e tutto quanto.

Quello che non si racconta peró, é che nel frattempo in quelle stesse piazze si parlava, si discuteva, si proponeva e ci si confrontava sui quegli stessi temi che avevano spinto la gente a uscire dai propri gusci. Si erano create vere e proprie commissioni di lavoro a cui bastava un po’ di curiositá per partecipare a chiunque passasse per quella piazza. Curiositá per ascoltare e, ovviamente, interesse per cambiare le cose. Interesse e competenze per cambiarle, anche quelle ci si rese ben presto conto che non mancavano.
La vera rivoluzione é stata il cambio dello stato mentale. É stato il rendersi conto del non essere piú soli e del mare di possibilitá che si aprivano dinnanzi per riprendersi in mano il diritto di gestire le proprie vite.
E allora a guardarla bene la scintilla di quel giorno in realtá non é mai svanita, anche se nel frattempo quelle piazze sono tornate ad essere spazi sterili dedicati al commercio e alla non-vita cittadina. Chi ne é stato colpito l’ha portata con sé nella sua vita quotidiana e la mantiene ben viva nel proprio quartiere, continuando con le assemblee e gli incontri locali a discutere e ad approfondire i perché. E a proporre soluzioni e alternative. Quello che ben pochi dicono, é che spesso nel loro piccolo le riescono anche a mettere in pratica. E questa, signori miei, é la vera rivoluzione cominciata quel 15 maggio 2011. La rivoluzione della partecipazione attiva e diretta.

Riappropriazione dello spazio che ci appartiene. Le piazze, simbolo delle cittá, sono nate come punto di incontro. Per scambiare le idee, per crescere come societá. Non per vendere pallocini, souvenir o granturco da dare ai piccioni. Da quel giorno le piazze sono un po’ meno mero luogo di passaggio, crocevia tra le strade dove consumiamo e quelle che ci portano a lavorare. La piazza torna ad essere quel luogo dove ci si confronta e ci si riunisce. Ma é una piazza senza populismo, che quello non serve. Non é la piazza del “le piazze chiedono”. Non é folla massificata e informe. É una miriade di persone civili. É la piazza della gente normale che é stufa e vuole dire la sua. E si rende conto all’improvviso che ha tanto da dire, e che non gli mancano certo le competenze per concorrere con i burocrati prezzolati che ci governano a nostre spese e rubandoci il consenso. La piazza é il simbolo che un’alternativa esiste ed é perfettamente possibile e attuabile. Oggi.

Riappropriazione della politica. Cioé della partecipazione a determinare il modo in cui gestire la cosa pubblica. Sanitá pubblica, educazione di qualitá, lavoro e non schivitú lavorativa, stato sociale, diritto ad una casa e una vita degna. Diritto alla realizzazione personale. La gente parla, discute, si interroga, ribatte, si confronta, propone, vota. Questo é il vero spirito di quelle giornate: democrazia vera e diretta.

Riappropriazione della comunicazione. In TV ci dicono quello che vogliono. Sui giornali piú o meno. Ma per fortuna la comunicazione non é piú unilaterale. C’é prima di tutto la piazza. Comunicazione diretta, faccia a faccia, come non se ne vedeva da tempo. E poi c’é internet con tutta la sua potenza innovativa e il mare di nuove possibilitá comunicative. Immediato, efficace, ramificato a tal punto da essere incontrollabile. Multilaterale, che rende ognuno comunicatore e recettore di comunicazione allo stesso tempo. E rende la questione virale: non puó piú essere ignorata.

Pazienza quindi quando le piazze principali si svuotano forzosamente. L’insegnamento di quei giorni resta e continua giorno dopo giorno in migliaia di gruppi di persone auto-organizzate che continuano a vivere nelle piazze minori o in quelle private o virtuali. Persone che restano lí, pronte a riunirsi di nuovo ogni volta che serva. Persone che si identificano con una causa non perché qualcuno glielo dice, ma perché lo sentono e ci credono personalmente e profondamente. Questo é quello che la gente non capisce quando pensa che tutto sia finito e allo stesso tempo la dimostrazione piú palese del fatto che le cose stiano iniziando a cambiare per davvero.



Tante volte si dice che il sistema bisogna cambiarlo dall’interno. In questo senso chi aspettava la formazione di un partito 15M o qualcosa del genere é rimasto deluso. I detrattori sono invece soddisfatti, affermando tronfi che c’era da aspettarselo che si sarebbe presto sgonfiato tutto. Cari signori, entrambi, temo non abbiate capito niente. Einstein diceva “non si puó risolvere un problema con la stessa mentalitá che l’ha generato”. E allora la politica e i partiti rimangano pure fuori. Ci si riunisce ognuno a titolo suo, responsabile di quello che dice in prima persona, in modo che ognuno sia costretto a pensare e criticamente ragionare. Non aspettiamo piú che il cambiamento arrivi dall’alto, perché sappiamo, abbiamo capito, che cosí non arriverá mai. Semplicemente perché a quelli in alto non conviene. Allora cambiamo strategia, cambiamo la prospettiva con cui guardiamo al problema e alla sua soluzione. Cambiamo il cambiamento. Il cambiamento ce lo prendiamo noi, direttamente, dal basso. Con gli strumenti che abbiamo noi formiche: lavorando. Fintanto che questo sistema oppressore e parassita che vive sulle nostre spalle diventi obsoleto e cada sotto il proprio peso.

Questa é l’idea, ma non guardiamo troppo lontano, rimaniamo concreti. CI concentriamo sul breve termine. Non creiamo artificiose impalcature sociali da cui possiamo solo aspettarci il fragore di quando cadranno davanti ai nostri occhi. Passo dopo passo, proviamo soluzioni nuove. La rivoluzione vera adesso come adesso é che il processo é giá in marcia e segue il suo percorso: ravvivare le menti e le coscienze critiche delle persone. Chi parlava tanto di speculazione finanziaria fino a 5 anni fa? Chi parlava di bolla immobiliaria? Chi aveva davvero coscienza del teatrino della politica e del potere? Chi sapeva come funziona il denaro, chi lo crea e chi lo gestisce? Chi parlava di debito? Chi aveva mai sentio parlare di queste cose 5 anni fa? Chi si confrontava quotidianamente su questi temi? La rivoluzione é che gente come me stia scrivendo di queste cose. É che gente come noi continui a leggere, che ne parli giorno dopo giorno, ne sia al corrente, si continui ad informare. Che sia chiaro ai governanti che sono sotto la nostra lente di ingrandimento ma non solo, che presto non ci serviranno piú.

Stiamo costruendo un sistema nuovo, non ci accontentiamo di aggiustare quello vecchio. Come? Come possiamo. Come sará? Non lo sappiamo ancora, ma sará diverso questo é certo. Per il fatto che sará per il bene di tutti e non per il bene di pochi, perché tutti perteciperemo. Sará democratico per davvero. Sará a rete, sará collegato al mondo reale.

A distanza di un anno da quel giorno la marea di gente é tornata ieri a riunirsi, a riappropriarsi delle piazze e delle strade. Tanti di quelli che li credevano morti solo perché tornati invisibili ai loro occhi sono caduti dalle nuvole. Noi sapevamo di continuare ad essere tanti, sempre di piú. E continueremo ad aumentare. Perché

prima ti ignorano,
poi ti deridono,
poi ti combattono,
poi vinci.



Anche questa volta succederá proprio cosí.






sabato 28 aprile 2012

Mettiamo in chiaro un paio di cose


Mettiamo in chiaro un paio di cose. Il compito di uno Stato é quello di salvaguardare e promuovere il benestare dei suoi cittadini. Se non lo fa, viene a mancare il motivo stesso della sua esistenza. Il che non significa caos, significa semplicemente chiedersi se valga la pena considerare un altro tipo di organizzazione, magari piú locale, magari di taglia ridotta, magari piú solidale.
Nel caso italiano, i cittadini da salvaguardare sono i piú di 60 milioni da Trento a Ragusa, non solamente i pochi ricchi speculatori, i cosiddetti poteri forti o le solite banche commerciali grazie ai quali ci ritroviamo come ci ritroviamo. Attori di un sistema di sviluppo che, semplicemente, non funziona e va cambiato. Un sistema di sviluppo basato sulla crescita, sul libero mercato e sul commercio mondiale. Sulla finanza e sulla speculazione. Sul mondo delle menzogne mascherate piú che sul mondo reale. Se davvero vogliamo mettere i puntini sulle i, la prima cosa da fare é renderci conto che – non lo si ripeterá mai abbastanza – si sono privatizzati i guadagni mentre sono le perdite quelle che si stanno socializzando.

Mettiamo in chiaro un paio di cose. Quello che sta succedendo in Europa é criminale, ma a ben vedere non é la prima volta che lo si fa. Sono pratiche ben consolidate, é solo la prima volta che entrano nel giardinetto di casa nostra. Prima erano lontane abbastanza da poterle ignorare e continuare a vivere nella nostra bollla felice. Scene del genere sono state la quotidianità nei paesi del sud del mondo sin dal secondo dopoguerra. È una guerra mascherata, senza armi ma pur sempre una guerra. E guerra significa principalmente guadagni, per chi la fa. Guerra significa portare la distruzione sul territorio nemico, lontano da casa propria.
Il meccanismo é molto semplice. Succede che qualcuno si rende conto che il vicino scemo ha un’immensa ricchezza sotto i piedi e gliela vuole fregare sotto il naso. Allora si studia una bella supercazzola per fargli capire che, in realtá, lui lo puó aiutare ad usarla – quello si – per il bene della propria gente. Allora il vicino scemo, che scemo non é ma magari solo ingenuo e in buonafede, accetta e lascia entrare gli scagnozzi del vicino furbo in casa sua. Viene fuori che sti lavori hanno un costo e che bisognerebbe ripagare chi li fa, al che il vicino furbo ha un’idea brillante e solidale. Guarda non ti preoccupare, dice al vicino scemo, io ti faccio i lavori e tu mi ripaghi con una parte della stessa ricchezza che stiamo tirando fuori. Piú un certo interesse. Finisce che in un modo o nell’altro il vicino scemo si lascia bucare e insozzare tutto il giardino, tanto che i suoi bambini nemmeno ci possono piú giocare, e tutto quello che tira fuori lo deve dare al vicino furbo per ripagare il debito contratto.  Ma non é abbastanza, perché a quel punto i bambini - che non ci possono giocare piú nel giardino - qualcosa dovranno pur fare, ma non si sa bene cosa. E allora arriva un amico del vicino furbo – furbo anche lui – e dice senti, io ti presto dei soldi per montare dietro casa tua un orticello di pomodori di superqualitá come se fosse antani, cosí almeno i tuoi poveri bambini scemi possono tenersi indaffarati e tu poi pomodori li puoi pure vendere al mercatino ai tuoi altri vicini. Che te ne pare? Vah, visto che sono proprio buono, assieme alla fabbrica ti ci costruisco pure un ospedale...lo so lo so, ma non mi devi ringraziare! Noi vicini furbi siamo fatti cosí, abbiamo il cuore tenero. Ecco allora che il vicino scemo, dall’avere un bel giardino su cui far giocare i suoi bambini belli contenti, si sta indebitando due volte e con due vicini diversi – in combutta tra loro – in fin dei conti per farsi distruggere il giardino lasciando tutta la sua ricchezza a qualcun’altro e mettendo i suoi bambini a lavorare per tirar fuori tonnellate di pomodori da vendere per due soldi a qualcun altro ancora. Il fatto é che per ripagare sto debito che si é preso, i pomodori li deve vendere tutti e gli rimangono appena due soldi per comprare quello che serve a lui e i suoi bambini per campare. Morale della favola: il vicino scemo si trova costretto ad ammazzarsi da coltivare pomodori, per poter ripagare il debito contratto coi vicini furbi mentre questi gli fregano da sotto il naso la sua ricchezza e gli comprano i pomodori per due soldi rivendendoli a tutti i supermercati del paese. Ma ancora non basta, e siccome sto debito non si ripaga mai – gli interessi aumentano e aumentano – i vicini furbi iniziano a fare gli scontenti e convincono il vicino scemo che sti bambini scemi, insomma, potrebbero anche lavorare un po’ di piú e smetterla di frignare tanto no? E allora via cosí... cornuti e mazziati.
Questa é la storia dei paesi del sud del mondo. Sostengono la nostra economia e il nostro stile di vita sregolato e consumistico. Se nei supermercati ormai si trova di tutto e costa sempre meno, il costo nascosto é proprio il sudore della loro fronte, la fame dei loro figli e la falcidiazione dei loro diritti. Il costo che non stiamo pagando é la loro vita, le loro tradizioni e la loro cultura rubate. Sono costretti alle monoculture intensive che gli lasciano poco o niente da mangiare perché devono vendere tutto sui mercati internazionali, con la conseguenza che l’autosussistenza per queste persone é ormai un sogno sbiadito, e che devono comprare tutto quello di cui hanno bisogno – perfino ció che essi stessi producono – diventando soggetti alle fluttuazioni dei mercati delle materie prime, che essi chiaramente non controllano. Succede che alla fne della giostra, non hanno piú da mangiare. Sono nostri schiavi.
Nel frattempo le grandi multinazionali saccheggiano le loro risorse naturali traendone benefici incredibili che si volatilizzano sui mercati finanziari senza passare in gran parte per l’economia reale, quella che da per davvero da mangiare alla gente. Allo stesso tempo muovono i fili di organizzazioni come la Banca Mondiale o il Fondo Monetario Internazionale, che prestano soldi agli stessi paesi che sfruttano a tassi di interesse che rendono il debito impagabile, pretendendo di influenzare le politiche di questi paesi per umentarne la produttivitá a scapito dei diritti umani.
Quando si parla di politica capitalistica neo-liberista, si parla di questo.  Quando si parla di debito si parla di questo. Quando si parla di poteri forti, si parla di questo. Si parla di queste imprese che sfruttano la gente semplice, i cui vertici sono gli stessi che controllano la finanza e la politica internazionale. Noi occidentali siamo gli artefici di tutto questo, ed ora ci sta tornando indietro come un boomerang.
Ormai infatti non basta piú sfruttare il giardinetto di casa del vicino, non ce n’é piú abbastanza... come un cancro impazzito, questo sistema si sta rivoltando alla gola stessa di chi gli dava da respirare in passato. La cara vecchia Europa. Certo, iniziamo dalle periferie... ogni infezione inizia dalle periferie, perché quando poi arriva al cuore, sopraggiunge la morte. Iniziamo allora dai greci, dagli irlandesi, dai portoghesi, dagli spagnoli, dagli italiani...
Rendiamo questa gente scema, in modo che siano sempre piú manipolabili. In modo che credano alle nostre promesse fasulle. In modo che credano davvero che vale la pena tenere duro e tirare la cinghia, perfino ritagliare i propri diritti per un ipotetico futuro migliore. Diamogli il mito della crescita. Facciamoli sognare. Facciamoli faticare e morire poco a poco, non chiamiamolo sacrificio peró, qua serve una trovata nuova. Chiamiamolo austeritá, cosí sembra che in realtá si stia solo correggendo una precedente attitudine sbagliata... spreconi prima, austeri poi. Suona molto meglio che sovrani prima, schiavi poi.

Mettiamo in chiaro un paio di cose. Qui qualcuno muove i fili del gioco e ci sta schiacciando. Poco conta dopotutto che ce ne rendiamo conto – come sempre – solo adesso che arriva nel nostro giardinetto. I sintomi ci sono giá tutti: agitare lo spettro del debito da ripagare, di uno Stato che Stato non é piú ma diventa una impresa privata che per mancanza di guadagni deve contenere la spesa, del dover cedere piú poteri all’Europa, del fare scarifici perché l’Europa ce lo chiede...
Tagli all’educazione per farci sempre piú scemi, controllo dei media per darci a conoscere sempre meno, tagli alla sanitá per renderci piú deboli, precariato lavorale per renderci schiavi ricattabili e privarci di ogni futuro.  Mito della crescita per abbagliarci con qualcosa che non arriverá mai e che, in realtá, sarebbe anche dannoso tornasse. Crescere, siamo giá cresciuti abbastanza. Anche troppo.

Come fare? Siamo davvero perduti? Mettiamo in chiaro un paio di cose, io credo di no. Credo che questi signori che muovono i fili del mondo non cambieranno mai, perché non gli conviene. Credo che siano sempre gli stessi sia che guardi nel mondo economico e della finanza, nei consigli di amministrazione delle grandi imprese, nelle banche, nelle organizzazioni sovranazionali, nella politica di ogni colore. Credo peró, che questi signori sono morti senza di noi. Credo che siamo noi che li teniamo in vita dopotutto, seguendo alla cieca quello che ci dicono di fare, adottando lo stile di vita che vogliono per noi per continuare – loro – a prosperare.
Credo che per risolvere un problema bisogna prima di tutto prenderne coscienza, per cui facciamolo. Sebbene possano controllare i media, ancora non possono controllare internet, sebbene ci stiano provando (vedi i tanti disegni di legge che governi di tutto il mondo stanno cercando di far passare per mascherare la censura come lotta alla pirateria e salvaguardia del diritto di autore...SOPA, PIPA, ACTA e compagnia bella). E allora informiamoci e apriamo gli occhi. E chiamiamo le cose col loro nome. Non austeritá, ma riduzione dei dirittti civili e schiavismo mascherato. Pensiamo ad un altro mondo, in cui non serva crescere per stare bene. Diventiamo autosufficienti il piú possibile, perché la nostra vita torni ad essere nelle nostre mani, che sono le uniche che davvero possiamo controllare.
E smettiamola, smettiamola, col consumismo sfrenato. Rendiamoci conto che abbiamo nelle nostre mani il potere piú grande di tutti, il consumo selettivo. Non ce ne rendiamo conto, ci sentiamo insignificanti di fronte a poteri di questa invergatura, ma se davvero inziassimo a dirigere il nostro consumo verso criteri piú responsabili... quello si che sarebbe un voto importante. Un voto che potremmo esercitare piú volte al giorno, e non solo una volta ogni 4 o 5 anni. Rendiamoci conto che abbiamo il potere di cambiare le cose. Rendiamoci conto anche che questo potere, questa volontá, puó solo venire dal basso. Dagli sfruttati, dai condannati alla miseria, da quelli che credono scemi, dalle vite sprecate. Perché dall’alto non verrá mai, inutile aspettare.

Mettiamo in chiaro un paio di cose. Io non sono disposto a lasciarmi shiavizzare, e ho cominciato da qui. A parlare e condividere quello che penso e quello che leggo.  A documentarmi e cercare di avere cura del mio comprtamento quotidiano, di quello che compro e di come lo faccio. A fare di tutto per cercare di diventare meno dipendente da cose che non posso controllare. La strada é lunga e faticosa, e la deriva utopica é sempre lí, a portata di mano. Ma credo che sia l’alternativa piú reale che abbiamo.

Mettiamo in chiaro un paio di cose. È finito il tempo di delegare le proprie responsabilitá. Ognuno si prenda la sua. Ognuno sia consapevole e responsabile delle proprie azioni. Ognuno si informi per capire cosa sta davvero succedendo. E cosa é sempre successo.

Mettiamo in chiaro un paio di cose: non é niente di nuovo, ma questa volta sta toccando a noi. E abbiamo il potere di fermarlo se davvero vogliamo.

Capire per agire.

Agire per cambiare.



martedì 27 marzo 2012

10 personaggi in cerca di usciere


Guardandomi attorno o allo specchio, non posso fare a meno di osservare continuamente comportamenti che impediscono un vero cambiamento della nostra societá verso qualcosa di migliore.

Perché malgrado lo sforzo individuale sia necessario, malgrado servano le regole e qualche volta vadano pure riformate le leggi, troppo spesso é il malcostume diffuso quello che ci frega per davvero. Quello sottile e impercettibile. Quello che sta negli sguardi e nei sospiri, quello che sta nei silenzi e negli indugi, quello che sta nel baccano e nel caos. Quello che permea l’aria che respiriamo da sempre ed é per questo, chissá, che non ce ne accorgiamo nemmeno piú.

Si da il caso che agire lí é davvero complicato. Perché a parte alle idee, ai buoni propositi, alla voglia di fare e alle motivazioni, quello che piú ci manca é spesso una sana e sincera autocritica.

Bene, eccola servita.



La prima cosa da fare per risolvere un problema é riconoscere di averlo.

Ho provato a immaginarmi e cercare di descrivere qui sotto 10 macchiette tipiche della nostra societá. 10 personaggi che potresti essere tu, potrei essere io. 10 personaggi che potrebbero essere i protagonisti di un libro o di una commedia. 10 personaggi che sembra quasi di vederli davanti agli occhi. 10 personaggi che non esistono di per sé, ma che d’altra parte il mondo intero ne é pieno. E puzza, anche, per merito loro.

10 personaggi che potrebbero essere ognuno di noi.
10 personaggi che sono tutti e ognuno di noi.
Chi piú chi meno, chi prima e chi poi, chi ancora e chi non piú. Di qui siam passati tutti.
Tutti li abbiamo guardati dritti negli occhi e tutti ci siamo infilati nei loro pantaloni.
È arrivato il momento di riconoscerlo e voltare pagina.

Ecco dunque – in ordine sparso – questi fantomatici e realissimi 10 personaggi di cui, francamente, faremmo tutti volentieri a meno...



...rullo di tamburi...

...silenzio in sala...

...si spengono le luci...

...si apre il sipario...

...entrano in scena...


1. Il forma-non-sostanza

Tipicamente parla per sentito dire o avendo idee molto poco chiare o assolutamente superficiali del tema che sta trattando. Ció non lo esime dal tenere pompose conferenze colte non appena l’occasione invita. Ció che in effetti lo aggrada, piú di quel che dice, é essenzialmente sentire il suono della propria voce dissertare di qualsiasi branca dello scibile, sempre autorevole e musicale. Normalmente é dotato della invidiabile capacitá di potersi astrare dal proprio corpo mentre parla per vedersi dal di fuori, riuscendo cosí a non perdere una briciola dell’immancabile stupore e ammirazione che la sua improvvisata saggezza suscita nel capannello di discepoli assiepati attorno a lui.


2. Il cosífantutti

Se vivi nella giungla allora meglio essere leone che pecora. Tralasciando la confusione ambientale (giungla-leone-pecora si sono forse incontrati solo nelle storie per bambini), il cosífantutti si muove a suo agio nell'intrico di liane e fronde basse della selva, furtivo. Si finge leone pur essendo pecora – anche se a volte riesce persino a crederselo – fintanto che le pecore non torneranno ad essere di moda, momento in cui rivendicherá orgogliosamente la sua mai dimenticata autentica natura. Il nostro amico (a gran malincuore) si sente autorizzato ad agire contro i propri simili per sopravvivere, qualora le circostanze ambientali – leggi malcostume diffuso – lo richiedano. Essendo in fin dei conti un sopravvissuto che mira al proprio tornaconto, spesso non si rende conto del vero danno che arreca agli altri il suo conformismo da pecora.



3.  Il pessimista cosmico
È quello che tanto niente cambia, tanto tutto é sempre uguale. Quello che anche se veramente volessi, a guardarsi attorno – davvero – passa la voglia. Quello che cosa vuoi farci, é sempre stato cosí e non cambierá di certo adesso. Quello che guarda che schifo. Quello che non vale mica la pena mettermi io a faticare, per sta gente qui. Quello che sai cosa ti dico? Andate a cagare, tutti. Pur vedendo chiaro nei problemi che ha di fronte riesce, grazie ad una eccellente assenza di misure propositive, a trasformare lo sdegno sincero in un ruvido conformismo a prova di bomba. Lui, peró, nemmeno ci prova a far finta di non essere pecora. E ci rimane.


4. Il furbo
Conosce bene le regole del gioco, a tal punto da riuscire scientemente (e non senza un certo merito a suo modo di vedere) ad aggirarle a proprio vantaggio. Indipendentemente dalla circostanze, si sente sempre al di sopra di tutti e di tutto, con una marcia in piú quasi per diritto divino. Cerca di beneficiare sempre e comunque al massimo del sistema e ne succhia il sangue come fosse un parassita senza dare nulla in cambio. Se andassi a mangiare una pizza fuori con lui, lui si prenderebbe un controfiletto e poi farebbe di tutto per dividere il conto in parti uguali, facendoti pure sentire un tirchio. Si sente il migliore e non vede perché gli debba mai finire la pacchia; il problema col furbo – spesso – é che al salire sempre piú in alto poi succede che quando inizia a mancare l’ossigeno precipita veloce e senza rendersene conto.


5. Il volpe senz’uva
Come nella celebre fiaba, la bruciante frustrazione dovuta al fallimento dei propri sforzi – o perfino  al mancato riconoscimento di un qualche pur flebile merito – lo porta a ignorare o sminuire costantemente questioni che egli stesso avrebbe normalmente del tutto a cuore.  Sostenuto da una sempreverde codardia, piuttosto che lottare per ottere ció che vuole riesce nel difficile compito di provarne una totale indifferenza. Nei migliori esemplari puó perfino arrivare a diventare uno strenuo oppositore della sua stessa causa.


6. Il rabbia-fine-a-sé-stessa
Pur non conformandosi di fronte a niente che non gli vada bene, non riesce ad avere un atteggiamento costruttivo nel risolvere i problemi. Ne deriva che molto spesso, e a paritá di opinioni rispetto ai suoi interlocutori, non viene capito in ció che cerca di esprimere. Ció lo porta perlopiú a non riuscire a migliorare la sua condizione di insoddisfatto cronico. La sua frustrazione montante viene spesso derivata in rabbia e nichilismo, che altro non fa se non peggiorare ulteriormente le cose facendogli vedere il mondo ancora piú in nero. Spesso finisce per svilire l’intera categoria di quelli che, pur non essendo dei rabbia-fine-a-sé-stessa, in realtá la pensano come lui.


7. Il tutto da rifare
Il tutto da rifare si guarda intorno e non vede nulla di positivo, solo negativo. Contrariamente al rabbia-fine-a-sé-stessa peró, é altamente propositivo; veramente lo é anche troppo, visto che cambierebbe tutto. Non perde occasione per farlo presente ai suoi ignari interlocutori ogni volta che si presenta l’occasione, asfissiandoli perlopiú con le sue disquisizioni senza fine. Per questo puó succedere che si ritrovi a vivere piú nel mondo delle idee che coi piedi perterra, venendo silenziosamente tacciato di scarso realismo. O perfino di idealismo. In realtá non c’é niente che lo faccia infuriare di piú, visto che, essendo una persona molto attiva e altamente capace, considera che non ci sia niente di piú reale che le idee valide. E le sue chiaramente lo sono. Sempre.


8. Il menefrego
Rimane al di fuori di tutte le cose piú grandi di lui e cerca di vivere tranquillo, finché dura. È quello del a me non mi venire a parlare di sta roba, cosa vuoi che me ne freghi a me. È quello del ma che facciano pure quel che vogliono basta che non mi rompano le balle a me. Non ha bisogni al di fuori di quel che puó controllare in prima persona. Non entra mai nel territorio dove risiedono i problemi che non lo riguardano. Vive, tranquillo e in pace, e lascia vivere. Crede di vivere in un’isoletta felice e normalmente cade dalle nuvole quando arrivano le erbacce da fuori a infestare il suo giardinetto.


9. Il fanatico
Cerca disperatamente un leader che gli inidichi LA via. Giá, perché ne esiste una – e una sola – di via. Quella che reggerá ogni aspetto della sua vita da lí in poi. Tutto é religione. Tutto é ideologia. O bianco o nero. O giusto o sbagliato. Quando la trova poi, non la molla piú e la segue. Ciecamente. O sei con lui, o sei contro di lui. Non aspetta altro che spegnere il cervello e diventare un burattino. Di scelte, nella sua vita, ne fa una.


10. Il supercazzoliere
Decisamente il mio preferito. Puó parlare ore e ore senza dir niente. L’argomento é del tutto secondario, lui riempie i silenzi. Da non confondersi con il forma-non-sostanza che, in fin dei conti, qualcosa (seppur spintamente approssimativo) dice. Contrariamente a questo, il supercazzoliere si ritrova spesso nella condizione del dover rispondere piú che in quella del voler intervenire. Unica condizione peraltro, questa, capace di alleviare la sua strana forma di libido. Spadroneggia nell’arte di deviare il discorso verso lidi a lui conosciuti eludendo domande scomode, giocando a mettere in difficoltá l’interlocutore o – perché no – anche solo per perdere tempo. Ostruzionista del dialogo si crede maestro della retorica, non essendo in realtá altro che la massima espressione dello svuotamento del linguaggio contemporaneo.




...qualcuno mostri a lorsignori l’uscita, per favore...





...ne abbiamo davvero bisogno.