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mercoledì 4 giugno 2014

Il tempo del tutto e del nulla

Il senso di questo articolo

Penso che il problema più grosso che abbiamo in Italia oggi sia la deriva culturale. Da una parte chi per capacità potrebbe rappresentare una guida di spessore e arricchire gli altri vede presto sprecati i propri sforzi per disinteresse degli interlocutori; per cui presto abdica al suo ruolo sociale, peraltro non scelto ma conseguente alle proprie capacità. Dall'altro la stragrande maggioranza delle persone è distratta dalle questioni che contano veramente, cioè quelle che in un modo o nell'altro determinano la qualità della loro vita. Troppo spesso si preferisce il futile e l’inutile alla cultura e all'impegno civile, gli slogan all'analisi seria, la faciloneria alla serietà.

In questo clima - ricordandoci che in democrazia ogni voto vale uno - è chiaro che l’espressione della maggioranza spesso non sia la più qualificata ad amministrare la società e a prendere le decisioni per tutti. Non è un problema della democrazia, ribadisco, è un problema di abbruttimento culturale. La cultura dominante tende continuamente al ribasso. Per cui sia la classe dirigente che quella politica, non essendo altro che uno specchio della società che rappresentano, non possono fare altrimenti.

Quale soluzione? Non esiste la pillolina magica indolore, bisogna impegnarsi a restituire alla cultura l’importanza che merita, riscattandola da decenni di denigrazione pubblica che in alcuni casi sfiora il disprezzo. Uscire dai luoghi comuni fasulli e dare applicazione reale a tutto questo, recuperando lo spirito civico e l’impegno in prima persona. Iniziare a percorrere la lunga e difficile strada che conduce al rinnovamento non del vertice della piramide, ma dell’intera base. Un percorso tortuoso e mai finito di costante autocritica, l’unico a mio avviso in grado di condurci a risultati duraturi. Tutto il resto temo sia destinato ad essere una speranza passeggera, più o meno infondata.

Qui sotto qualche riflessione più articolata.




NUBI DI IERI SUL NOSTRO DOMANI ODIERNO (cit.)

Nel commentare la debacle della sinistra (più o meno) radicale alle elezioni politiche del 2013 (Il pedone e il giocatore di scacchi), mi chiedevo come fosse possibile che praticamente uno su tre di quelli che erano andati a votare si fossero lasciati abbindolare ancora una volta dalle promesse farlocche del  signor Berlusconi. Mi chiedevo anche come mai tanti altri non capissero che fossero l’iniquità nella distribuzione delle risorse, l’ingiustizia sociale, la mancata presenza di un senso civico contrapposto al mero opportunismo le maggiori cause della triste situazione in cui versa il nostro Paese. Ma soprattutto, in tutto questo, mi interrogavo sul ruolo dei cosiddetti intellettuali di sinistra. Ossia quella schiera di studiosi e sagaci osservatori della realtà che, dall'alto della propria invidiabile cultura, certamente sarebbero in grado di aiutare molti a districarsi nella giungla dell’analisi politica. Nonostante tutto, spesso e volentieri queste persone faticano a scendere a parlare al mondo dei comuni mortali, nella loro lingua. Come se non li riguardasse, come se non fosse compito loro. Come se fossero vinti da un’atavica pigrizia a sporcarsi le mani con l’uomo medio, a sostenere 1'000 volte e altre 1'000 ancora la stessa, stucchevole e magari inutile, conversazione. Non per convincere, ma per far luce su aspetti fino a quel momento magari sconosciuti, per aiutare a riflettere. Perché mi chiedevo tutto questo? Semplice: perché in democrazia ogni voto vale quanto l’altro. Il voto degli illuminati vale esattamente quanto quello dell’uomo della strada, dell’incolto e dello zoticone. Per cui questi signori dalla ampie vedute non possono venir meno a una funzione sociale di cui nessuno li ha investiti, ma che nonostante tutto hanno la responsabilità (e l’onore) di ricoprire, certamente in gran parte per meriti propri. Nel non farlo erano proprio loro a permettere la debacle di quella rappresentanza cui appartengono, che più di altre rifugge l’analisi spicciola per abbracciare invece vedute ad ampio raggio nel tempo e nello spazio. E che proprio per questo ha bisogno di una costante e infaticabile azione di diffusione e divulgazione, informativa e riflessiva. In alternativa vince il populismo e la demagogia, ammesso che esista ancora qualcosa che non lo sia in politica.

Di tutto questo mi lamentavo allora e, a un anno ed una tornata elettorale di distanza, posso osservare che nella sostanza nulla è cambiato, ma che forse qualcosa in più si muove. Siamo sempre di fronte ad un’occasione da cogliere per mettere in pratica quel cambiamento impellente che richiede una partecipazione informata di tutti alla cosa pubblica. Siamo sempre ad aspettare che, ognuno per sé, si capisca che fare politica non significa né candidarsi né mettere una X di tanto in tanto, ma parlare, discutere, ragionare, ascoltare, capire e riflettere assieme. Che far politica è un atto quotidiano di partecipazione civile che spetta a tutti. Nel frattempo qualche intellettuale la faccia ce l’ha messa, e il progetto della lista civica della sinistra radicale si è ripetuto prendendo qualche voto in più. Son cose che fanno ben sperare, ma non basta.

Capiamoci. Il problema non è poi dei singoli, è della società. Una società distratta e senza fiato, che arriva alla sera sfiancata da lavori ingrati e spesso alienanti, che non vuole ragionare di massimi sistemi perché ha già abbastanza problemi ogni giorno per sbarcare il lunario. Che per la testa di questioni pratiche da risolvere ne ha già tante ed è abituata a delegare qualsiasi cosa trascenda la propria individualità. È lo scacco matto alla partecipazione. È questa la società settaria del disinteresse per i beni pubblici e per la cultura “che non si mangia”. È questa la società della mancanza di civismo e compassione, del cinismo e del parassitare. È il paese che ha paura di guardarsi allo specchio perché ha vergogna di quello che potrebbe vedere. Molto meglio nutrirsi dei sogni degli altri che provare a seguire i propri, il rischio è quello di fallire.

Certo, è la società intera a doversi sollevare, a invertire una marcia debosciante ed abbruttente che dura da fin troppo tempo. Ma la società è fatta dai singoli, per cui se non sono loro in primis ad abbracciare il cambio di rotta, a condividere il proprio coraggio con gli altri trovandovi una sponda (magari inattesa), a sostenersi gli uni con gli altri amplificando la propria voce fino a diventare una marea che tutto travolge... allora non si vede come le cose possano migliorare. Migliorare certo, cambiare non basta. Sempre che interessi a qualcuno.


RUMORE

Un problema grosso da risolvere è che pare essere scomparso il concetto di importanza relativa. Ogni giorno affoghiamo nel calderone dell’era dell’informazione e della controinformazione senza sapere che direzione prendere. Siamo saturi di tutto e del contrario di tutto e rischiamo di rimanerci invischiati come a nuotare in un barattolo di miele. Servirebbe una guida. Si da il caso che l’evoluzione ci abbia dotato di uno strumento straordinario per orientarci, uno strumento spesso dimenticato che ha dimora tra le nostre orecchie: il cervello. È l’uso della ragione e della critica costante che potrebbe guidarci meglio di qualsiasi altra cosa attraverso il labirinto del web e del mondo globalizzato a portata di click. È il rimanere attivamente coinvolti nel ricercare l’informazione che ci serve a rappresentare oggi la vera possibilità di rivoluzione del pensiero, al di là del supporto tecnologico che di per sé non è che uno strumento.

Attivamente coinvolti, non passivamente recettivi di qualsiasi contenuto sia bombardato in nostra direzione... In questo il web offre sicuramente possibilità nuove di interagire coi contenuti, molto più della scatola magica televisiva che rappresentava (e tuttora rappresenta) semplicemente il veicolo di un pacchetto preconfezionato sparato contro l’homus da divanum a riempire lo spazio tra le orecchie di cui sopra. Ma di per sé il web non salva nulla. Pur offrendo per definizione più spazio alla selezione critica dei contenuti, e persino alla loro creazione, è uno strumento anche quello e va usato bene.

Ecco perché penso che uno problema grossissimo della società di oggi sia la perdita delle priorità. Lo spazio cerebrale viene riempito egualmente da cagnolini che abbaiano o gattini che tirano la catena del wc, di nani e ballerine, casi umani e fenomeni da baraccone che aspirano ai loro 5 minuti di celebrità, di tette culi e pornografia spicciola, di gente che altro merito non ha se non di potersi comprare fama e rispetto, dell’infotainment strabordante di politici che non si sa dove in effetti trovino il tempo per fare gli amministratori pubblici, dell’uomo della strada che grida compiaciuto e con la bava alla bocca contro tutto e tutti che così non va e nonsipuòandareavanticosì... mi scuserete per il qualunquismo, ma di qualunquismo si tratta. Qualunque cosa ci diano, ce la ingoiamo senza chiederci se abbiamo fame o no, e di che cosa. Si perdono le priorità, non si capisce più cosa abbia importanza e cosa no, a cosa vale la pena dedicare le proprie (limitate) energie, di cosa dispiacersi e di cosa no, dove interessarsi e dove tralasciare, dove cambiare canale e dove alzare il volume. Ed è una tragedia. Anzi, una traggedia (rafforzativo). Perché questa dispersione di attenzione, di risorse cerebrali, di interesse e di azione fa esattamente il gioco di un sistema che della partecipazione non se ne fa nulla, anzi. Un sistema che vuole solo creare l’illusione della partecipazione, per poi distrarre dalle questioni principali dirottando le energie sul futile e sul del tutto inutile, continuando ad occuparsi di ciò che conta per davvero nei club privati più o meno esclusivi.

Esiste un antidoto a tutto ciò? No. Ma c’è una strada faticosa e lunga da percorrere che varrebbe la pena iniziare ad imboccare: quella della cultura e del dialogo. Non dell’indottrinamento e delle urla. Quella che legge e riflette per mettere in fila quello che ha imparato; quella che prima di parlare ascolta; quella che rimane vigile, sempre, nel farsi domande e nell'usare il proprio raziocinio per rispondere; quella che stabilisce delle priorità e le segue; quella che guarda lontano e si lascia scivolare addosso lo stucchevole e volgare teatrino che ogni giorno ci bombarda per renderci pecore; quella che non ha paura di esprimere un dissenso costruttivo e che ha la forza di mantenere le proprie posizioni, ma solo finché ragionando su elementi nuovi non cambierà idea o non avrà altri elementi da aggiungere. È una strada da insegnare ai nostri bambini e ai nostri ragazzi, certo, ma da far scoprire anche agli adulti e a chi oggi regge in piedi il mondo. È una stradina scivolosa e tortuosa da fare con umiltà e coraggio, ma non ne conosco di migliori da percorrere.

Non mi resta che augurare a tutti i naviganti buon viaggio.





mercoledì 15 agosto 2012

Questa storia

Siamo alle strette, perché il futuro si decide ora. La storia, daltronde, é un filo sottile che corre senza riavvolgersi mai. Per quanto possa piacerci il concetto di passato o futuro quello che esiste per davvero, e sempre, é il presente. La storia la scriviamo oggi, ora, in questo momento. E la scriviamo noi, nessun altro.
Non esiste nessun cammino predefinito, non esiste niente di certo né niente di irreversibile. Abbiamo del tempo a disposizione per scrivere il nostro pezzetto di storia. Non chiedetemi il perché, quella é tutta un’altra questione. Quello che mi interessa é il come.

Perché é indiscutibile il fatto che ora tocchi a noi. Tutti hanno avuto la loro occasione, chi l’ha usata meglio e chi peggio. Ci sono stati i nonni che vivevano tranquilli nel loro mondo idillico fatto di campagne e conigli, sani come pesci e felici come perdici. Errore. Ci sono stati i nonni che hanno sudato come matti perché, semplicemente, quella era la loro parte di storia da scrivere. Dovevano sudare come dei matti per arrivare a fine giornata e mettere insieme il pranzo con la cena. Erano tempi duri e loro erano persone di quel tempo, un tempo che non c’é piú. E ce l’hanno fatta. Hanno coltivato campi, costruito case, creato fabbriche e produzioni che ci hanno portato nell’era del boom. C’erano – come continuano ad esserci e ci saranno sempre –quelli geniali e gli sgobboni, i furbi e gli onesti, le brave e le cattive persone. Ma hanno dato forma al loro mondo, probabilmente nell’unica direzione possibile: il benessere. E il benessere é progresso. Il progresso ci ha portato all’industrializzazione prima e la globalizzazione poi. E nel mezzo c’é stata un’altra generazione, un altro tempo e un altro pezzetto di storia. É stato il tempo dei padri, che hanno avuto altre cose da fare e le hanno fatte altrettanto bene. Ci hanno aperto il mondo e regalato la vita comoda che conosciamo, ma non apprezziamo. Ci hanno regalato il loro sogno di bambini ma noi, in quel sogno, ci siamo cresciuti dentro e ci sembra talmente normale da diventare noioso. Qualcuno dirá che siamo una generazione viziata, credo che in parte sia vero. Siamo quelli delle vacanze per tutti, del telefonino all’ultima moda prima di tutto, siamo quelli dei supermercati sempre pieni e dei voli low-cost. Ma siamo, soprattutto, quelli che non si fanno domande. Siamo quelli che hanno accettato in partenza di scollegare la causa dell’effetto, il braccio dalla spada. Siamo quelli che accendi la luce e spingi sul gas senza chiederti da dove venga, quelli delle possibilitá infinite per diritto divino e quelli dell’ultimo gadget perché sí. Siamo quelli che vivono tranquilli in vacanza permanente dalla realtá. Non perché siamo cattive persone, ma perché non l’abbiamo mai visto né nessuno si é mai preso la briga di spiegarcelo sul serio. Non é mai stato conveniente, dopotutto, spiegarcelo. Allora andiamo avanti, ad occhi chiusi, su una strada distesa bella dritta di fronte a noi. Camminiamo intontiti e felici eppur sentiamo (perfino i piú testardi) alzarsi tutto intorno a noi un ineluttabile fetore.

Ed é qui che inizia la nostra storia. La nostra storia é quella dei figli. I figli che quegli occhi li aprono e vedono quello che c’é tutto attorno alla quella strada stesa dritta, quello che giá annusavano prima e cui non riuscivano a dare un nome. La nostra storia inizia ora, qui. Se stai leggendo preparati, perché non potrai dire di non essere stato avvisato. Non potrai fare quello che é stato lasciato a piedi mentre gli altri salivano sul carro della storia. La storia, da questo momento in poi, la prendiamo in mano noi. Non perché siamo migliori, ma perché é arrivato il nostro momento. É nostro diritto, ma anche nostro dovere. E la storia non ti chiama, la devi fare tu.

La storia che scriveremo potrá sembrare per tanti versi radicalmente opposta a quella passata, per altri esattamente uguale. La storia che scriveremo, la nostra storia, nasce dal nostro tempo. Tempo di informazioni che collegano il mondo e viaggiano alla velocitá della luce. La nostra storia si nutre di pensiero critico e razionalitá, di passione e di coscienza. La storia che scriveremo é in realtá l’unica che potremmo mai scrivere. Se fallissimo, stavolta potrebbero non esserci nipotini a scriverne il seguito. Il momento é questo, é critico, é capitato a noi ed é una bella responsabilitá di cui peró ci dobbiamo fare carico, per quanto non l’abbiamo chiesto noi. Un peso, ma anche un emozione elettrizzante. E allora potremmo essere ricordati come quelli che hanno fatto la loro parte – come quelli prima di noi, del resto – parte che specialmente ora assume forse un’importanza speciale, da questione di vita o di morte piú che di vita o di vitaccia. Potremmo essere ricordati come quelli che nella tempesta della crisi piú totale prendono il timone e, tra lo scetticismo e perfino le proteste dei marinai piú rodati, invertono la rotta riportando la nave in acque sicure. Era partita in cerca di qualcosa di migliore, ma si era spinta in una direzione che alla lunga si é rivelata sbagliata. Avendolo capito, invertire la rotta non é un tornare indietro, ma una decisione cosciente, un andare in avanti verso la direzione che si conosce sicura. Si tornerá poi ad esplorare in altre direzioni, in altri modi, il timone continuerá a girare ma le mani che lo governeranno sapranno dove non devono dirigere la nave.

Potremmo allora  essere quelli che salvano la nave e l’equipaggio. Potremmo fare semplicemente quel che va fatto, senza aspettarsi altri riconoscimenti dal presente ed per essere poi ricordati come uno dei tanti punitini nella successione che conforma la linea della storia. Oppure potremmo essere gli eterni bambini, quelli che si sentono inadatti e si nascondono dietro le gonne delle mamme. Quelli che declinano colpe e responsabilitá. Quelli che perdono la loro occasione e lasciano che la nave affondi pur di non prendere il coraggio e il timone tra le mani, per paura di lasciarselo scivolare, ma anche perché hanno sempre visto i vecchi comandanti occuparsene.
Potremmo essere quelli che cambiano le carte in tavola, perché abbiamo capito che il gioco é cambiato anche lui. Potremmo essere quelli audaci che lo vedono arrivare per primi, si preparano e rispondono. Oppure quelli perennemente assopiti e intorpiditi dall’ignavia, dalla codardía e dal qualunquismo, dal pessimismo cosmico e dalla pigrizia terrena, quelli che si svegliano troppo tardi, o perfino quelli che non fanno nemmeno in tempo a svegliarsi.
Tutto questo spetta a noi deciderlo. Spetta a noi perché é il nostro momento. Non verrá nessuno a dircelo, e se ci aspettiamo qualche incoraggiamento ci sbagliamo di grosso. Bisogna sentire quando arriva, e prenderselo.

Saremo quelli del cambio di paradigma e di visione sul mondo. Quelli che non vedono nessuna crisi economica o finanziaria, ma prima di tutto una crisi sistemica nella quale é impossibile distinguere alcun tratto principale perché coinvolge tutto, separatamente e allo stesso tempo in maniera interconnessa. Crisi ambientale, alimentare, di risorse, economica, finanziaria, culturale, umana. Crisi del paradigma creato dai nonni e i padri, che magari andava bene prima ma ora non piú. Crisi del sistema in cui viviamo, fatto da uomini come noi ora, ma al loro tempo. Fatto quando venne il loro, di momento. Saremo quelli che capiscono che occorre andare alla causa del problema e risolverlo lí, piú che dedicarsi alle migliaia di piccole conseguenze che inevitabilmente tornano a riproporsi sotto le stesse o nuove spoglie. Saremo quelli che cambiano il sistema perché sanno come farlo, lo sovvertono se serve, lo adattano alle nuove circostanze e lo servono in mano a quelli che verranno dopo. Saremo necessariamente quelli, peché altrimenti non ci sará un dopo, e non ci sará niente e nessuno da ricordare.
Saremo quelli del passo indietro cosciente. Saremo quelli che per tanti versi ritorneranno ai tempi dei nonni e dei padri, attualizzandoli al giorno d’oggi grazie alla conoscienza e il sapere accumulato e alle nuove possibilitá che la storia ci ha offerto. E lo faremo non piú perché non potremo fare altrimenti, ma per una scelta cosciente, autonoma e ben informata. Saremo quelli che possono ma non lo fanno, perché conoscono le conseguenze e non le vogliono. I nonni non potevano scegliere, e cosí in molti casi anche i padri. Noi si, e sceglieremo di non farlo. Questa sará la nostra storia.

Saremo quelli del passo indietro cosciente, che altro non é se non l’unico passo avanti davvero possibile.

venerdì 2 dicembre 2011

Responsabilità partecipativa contemporanea


Il tempo, come ormai è comunemente accettato, è relativo. Relativo in molti sensi. Einstein ci spiega che piú rapidamente ci muoviamo, piú il tempo si dilata in sé. Passa piú lentamente. Concetto per lo piú teorico, di cui abbiamo scarso riscontro nella nostra vita quotidiana, ma che é pur sempre lí. Un fenomeno fisico in sé e uguale per tutti che potremmo definire, con buona pace di Einstein, assoluto.
La dilatazione del tempo peró, a livello umano, é soprattutto psico-emozionale. Un qualcosa, questo, che tutti abbiamo sperimentato in prima persona. Dilatazione qualitativo-quantitativa. Un processo, questo, estremamente relativo.
Potremmo allora dire che sono le nostre azioni e le circostanze in cui ci troviamo a cambiare il tempo. Ne cambiano il corso e ne cambiano la sostanza. Sentiamo di averne di piú o di meno e lo viviamo in maniera diversa.

È forse vero anche il contrario? Puó il tempo influenzare le nostre azioni? Direi proprio di si e, ancora, in piú di un senso. Se intendiamo il tempo in maniera assoluta come il tappeto rosso che si srotola davanti a noi, quale in effetti é, quello che possiamo conoscere solo all’indietro e vivere solo in avanti, allora é evidente che non ci comportiamo di certo nello stesso modo in cui ci si comportava, ad esempio, nel Medio Evo. Se invece lo interpretiamo in maniera relativa, allora é anche vero che non ci comportiamo nello stesso modo nemmeno al sapere di avere un minuto o 10 ore per fare qualcosa.

Le nostre azioni, intese come azioni della collettività, hanno avuto lungo la storia enormi conseguenze. Non hanno in questo caso modificato il tempo in sé, che continua inesorabile il suo corso come ha sempre fatto; hanno peró modificato la nostra societá e il modo in cui vediamo il mondo. L’insieme delle inevitabili conseguenze che ogni azione porta con sé ha modificato la nostra concezione del tempo in cui viviamo e, di conseguenza, il nostro modo di vivere in esso. Necessariamente, ogni nuovo tempo ha poi portato con sé azioni diverse, nuove anch’esse. É la storia dell’evoluzione e del progresso della nostra societá nel tempo, la stessa che ci spinge costantemente a cambiare il modo in cui agiamo e vediamo il mondo.
Le nostre azioni influenzano il tempo. Il tempo influenza le nostre azioni.

Le nostre azioni influenzano le nostre azioni.

Il trascorrere del tempo porta con sè avvenimenti e novità, scoperte e idee. Una nuova concezione della societá e della natura che ci circonda. Un nuovo rapporto con la spiritualitá e una nuova scienza. Nuovi rapporti interpersonali, nuove esigenze e nuove paure. Una nuova visione del mondo e concezione del nostro ruolo di suoi coinquilini privilegiati. Un nuovo paradigma comunemente accettato da tutti per descrivere il complesso e intricato insieme di relazioni in cui viviamo, nel cui ci muoviamo.
Tutto cambia, con il tempo. Tutto cambia, perché non riusciamo a stare fermi. Siamo inesorabilmente mossi da qualcosa, qualcosa che ci spinge a fare meglio di prima, a cercare nuove soluzioni per vivere meglio o anche per il puro e semplice piacere della scoperta e della conoscienza. Siamo nomadi, non ci accontentiamo mai.





Il sistema in cui ci organizziamo si è costantemente evoluto fino ad arrivare qui, oggi. Ma al percorrere la linea del tempo si vede quel che si ha alle spalle ma non quel che si ha davanti, credendo spesso di essere arrivati. Che non ci sia niente di nuovo piú. Accade peró, spesso non senza sorpresa, che quella linea si allunga ancora un po’, e un altro po’ ancora...e cosí continua, sempre.
L’uomo si é sempre organizzato in una qualche struttura sociale, per sopravvivere. Da ognuna di essa é inevitabilmente emerso un certo gruppo di persone che, per qualitá o meriti fuori dalla norma, si é assunta la responsabilitá di guidare gli altri verso un cammino sicuro. Organizzazione della societá e leadership. La cosiddetta classe dirigente, quelli che, in un modo o nell’altro, reggono il potere tra le dita.
Ogni sistema ha prodotto una classe simile salvo poi, seguendo l’inevitabile corso della storia e del tempo, abbandonarla nel momento in cui nuove forze e pulsioni hanno prodotto un cambiamento sostanziale nel sistema di cui quella classe dirigente era l’espressione. Curiosamente, si tratta spesso e volentieri di qualcosa originatosi e all’esterno della classe dirigente stessa. La classe dirigente, il gruppo dei potenti, per definizione, tende ad autoperpetuarsi. Tende a rimanere al potere. Con o senza malizia. Vuoi perché non vedano il cambiamento, vuoi perché non lo accettino. Vuoi perché vogliano rimanere al potere, dimenticandosi del motivo per cui ci sono arrivati: servire gli altri per via delle proprie capacitá fuori dalla norma. Si tratta spesso di una degenerazione di qualcosa di nobile in qualcosa che suona molto come “il potere per il potere”. Da che mondo é mondo il sistema stabilito si é potuto cambiare solo grazie a spinte provenienti dall’esterno della classe dirigente di quello stesso sistema. A volte in modo sommamente violento e tragico. A volte meno. Sempre e comunque obbediendo all’ineluttabile pulsione umana che ci richiede, gridando, progresso.

Ma che cos’é il progresso? Significa forse modernizzazione? Significa fare piú soldi? Significa fare di piú con meno? Progresso significa un qualche insieme di azioni volte al miglioramento della condizione di vita umana. Si puó parlare di progresso tecnologico, scientifico, ecnomico, sociale etc...
La naturale sete di progresso, intrinseca nell’uomo, ci ha sempre spinto verso il cambio. Ineluttabilmente, il cambiamento arriva. Lo si voglia o no. E tende ad arrivare per mano di chi non beneficia piú di tanto del sistema attuale, normalmente gli stessi ad avere piú urgenza nel cambiarlo. Non si tratta forse di qualcosa di particolarmente nobile. Il potere corrompe chiunque. Forse si tratta di mera causalitá. Chi non ha, vuole; chi ha giá, non vuole cedere.

Considerando l’inesorabilitá del cambiamento, che ci accompagna da sempre, emerge il fatto che niente é giusto o sbagliato in sé e per sé, ma andrebbe sempre giudicato nel suo contesto storico, socio-economico, tecnico-scientifico. Tutto é relativo. La migliore opzione 100 anni fa probabilmente non lo é piú ora, visto il progresso maturato in questo lasso di tempo. Vale allora la pena fare qualche domanda: 
  1. Quali sono i tratti salienti che caratterizzano il sistema in cui viviamo? Sono adatti al nostro tempo, sia in termini di esigenze che di possibilità? Ovvero, questo sistema é in grado di soddisfare le esigenze dell’umanitá del giorno d’oggi? Si avvale di tutti gli strumenti che migliaia di anni di progresso gli mettono ogni giorno a disposizione? Ma soprattutto, sta usando adeguatamente le incredibili possibilitá che il vertiginoso progresso tecnico-scientifico degli ultimi 100 anni, seguendo un andamento esponenziale, gli continua a fornire giorno dopo giorno?
  2. Crediamo esista un’alternativa migliore a questo sistema? Con alternativa non intendo dire andare a vivere sulla Luna, ma un’alternativa concreta, attuabile, percorribile ma sostanziale all’architettura che permea la nostra visione del mondo.
  3. Cosa sta facendo l’attuale classe dirigente per preservare il proprio potere, al giorno d’oggi? Se il progresso esiste davvero, forse hanno in mano gli strumenti piú potenti di sempre per garantirsi di mantenere saldo il potere nelle loro mani. Immaginando che sia cosí, quali sono questi strumenti? Stanno influendo nella nostra capacità di immaginarci un’alternativa?





Il sistema in cui viviamo si contraddistingue per una diseguaglianza estrema. Se tutti gli uomini sono nati uguali, apprendiamo ben presto che non é affatto cosí. Vediamo costantemente bambini morire di fame o, anche se non li vediamo, sappiamo perfettamente che sono lí. Uno ogni 5 secondi in media su questo pianeta. Qual é la differenza tra loro e noi? Mera casualitá. L’essere nati nella parte sbagliata del mondo. Concepiti nel letto sbagliato. Siamo davvero pronti ad accettarlo e a continuare a tenere chiusi gli occhi?
Vogliamo davvero continuare a inchinarci ad un sistema cannibale basato sul mito della crescita e del profitto? Vogliamo stare a guardare mentre come un cancro divora tutte le risorse del pianeta su cui viviamo da sempre, senza offrirci nessun’altra possibilitá?
Viviamo in una societá giusta, o forse siamo tutti solamente degli egoisti? Siamo davvero tutti struzzi che finché non ci tocca a noi il problema non esiste? Guardiamo sotto un’altra prospettiva quello che sta succedendo in Europa. Siamo pur sempre lontanti anni luce da quello che é sempre successo in aree piú o meno remote del pianeta. Soprusi, violenze, morte, povertá. Eppure é quello che ci aspetta, prima o poi. Anche a noi ricchi, educati e perbene.
Il punto, qui, non é quando arriverá. State pur certi che arriverá. Il punto é se riusciamo davvero ad accettare l’idea che arrivi, fino al punto da rimanere inermi sulla rotta di collisione aspettando l’impatto.

Io credo che un alternativa sia possibile. E credo che sia ora di prendersi le proprie responsabilitá, in prima persona. Non si puó pretendere di essere ascoltati seriamente senza dare l’esempio. Gandhi diceva

sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo

E allora per quanto mi riguarda cercheró di fare del mio meglio, nel mio piccolo, per cambiare le cose. A cominciare da qui. Per elaborare e proporre un’alternativa. Magari per essere d’ispirazione a qualcuno. Al pari di tutte quelle, tante, persone che lo sono state per me. Di quelle che continuano ad esserlo. Di quelle che lo saranno.

Credo che sia arrivato il momento di aprire gli occhi, di alzarsi davvero in piedi e di prendersi, tutti, le proprie responsabilitá. Di togliere la testa dalla sabbia. Perché se non lo facciamo, se non agiamo subito, immediatamente, ognuno cosí come potrá, possiamo ben considerarci complici di tutto quello di cui tanto ci piace lamentarci.

Il tempo cambia e si evolve, e noi con lui. Il tempo di aspettare che qualcuno faccia qualcosa é finito. É iniziato il tempo della responsabilitá partecipativa. Attiva. Contemporanea. Individuale prima ancora che collettiva.


Agire per cambiare il tempo, come abbiamo sempre fatto.




Corre l’anno 2011. 

Chissá se il 2012 sará davvero la fine del Mondo. As we know it.