Il senso di questo articolo
Penso che il problema più grosso
che abbiamo in Italia oggi sia la deriva culturale. Da una parte chi per
capacità potrebbe rappresentare una guida di spessore e arricchire gli altri
vede presto sprecati i propri sforzi per disinteresse degli interlocutori; per
cui presto abdica al suo ruolo sociale, peraltro non scelto ma conseguente alle
proprie capacità. Dall'altro la stragrande maggioranza delle persone è
distratta dalle questioni che contano veramente, cioè quelle che in un modo o
nell'altro determinano la qualità della loro vita. Troppo spesso si preferisce il
futile e l’inutile alla cultura e all'impegno civile, gli slogan all'analisi
seria, la faciloneria alla serietà.
In questo clima - ricordandoci
che in democrazia ogni voto vale uno - è chiaro che l’espressione della
maggioranza spesso non sia la più qualificata ad amministrare la società e a
prendere le decisioni per tutti. Non è un problema della democrazia, ribadisco,
è un problema di abbruttimento culturale. La cultura dominante tende
continuamente al ribasso. Per cui sia la classe dirigente che quella politica,
non essendo altro che uno specchio della società che rappresentano, non possono fare altrimenti.
Quale soluzione? Non esiste la
pillolina magica indolore, bisogna impegnarsi a restituire alla cultura
l’importanza che merita, riscattandola da decenni di denigrazione pubblica che
in alcuni casi sfiora il disprezzo. Uscire dai luoghi comuni fasulli e dare
applicazione reale a tutto questo, recuperando lo spirito civico e l’impegno in
prima persona. Iniziare a percorrere la lunga e difficile strada che conduce al
rinnovamento non del vertice della piramide, ma dell’intera base. Un percorso
tortuoso e mai finito di costante autocritica, l’unico a mio avviso in grado di
condurci a risultati duraturi. Tutto il resto temo sia destinato ad essere una
speranza passeggera, più o meno infondata.
Qui sotto qualche riflessione più
articolata.
NUBI DI IERI SUL NOSTRO DOMANI
ODIERNO (cit.)
Nel commentare la debacle della
sinistra (più o meno) radicale alle elezioni politiche del 2013 (Il pedone e il giocatore di scacchi), mi chiedevo come fosse possibile che praticamente
uno su tre di quelli che erano andati a votare si fossero lasciati abbindolare ancora
una volta dalle promesse farlocche del
signor Berlusconi. Mi chiedevo anche come mai tanti altri non capissero
che fossero l’iniquità nella distribuzione delle risorse, l’ingiustizia
sociale, la mancata presenza di un senso civico contrapposto al mero
opportunismo le maggiori cause della triste situazione in cui versa il nostro
Paese. Ma soprattutto, in tutto questo, mi interrogavo sul ruolo dei cosiddetti
intellettuali
di sinistra. Ossia quella schiera di studiosi e sagaci osservatori
della realtà che, dall'alto della propria invidiabile cultura, certamente
sarebbero in grado di aiutare molti a districarsi nella giungla dell’analisi
politica. Nonostante tutto, spesso e volentieri queste persone faticano a scendere
a parlare al mondo dei comuni mortali, nella loro lingua. Come se non li
riguardasse, come se non fosse compito loro. Come se fossero vinti da
un’atavica pigrizia a sporcarsi le mani con l’uomo medio, a sostenere 1'000
volte e altre 1'000 ancora la stessa, stucchevole e magari inutile,
conversazione. Non per convincere, ma per far luce su aspetti fino a quel
momento magari sconosciuti, per aiutare a riflettere. Perché mi chiedevo tutto
questo? Semplice: perché in democrazia ogni
voto vale quanto l’altro. Il voto degli illuminati vale esattamente quanto
quello dell’uomo della strada, dell’incolto e dello zoticone. Per cui questi
signori dalla ampie vedute non possono venir meno a una funzione sociale di cui
nessuno li ha investiti, ma che nonostante tutto hanno la responsabilità (e
l’onore) di ricoprire, certamente in gran parte per meriti propri. Nel non
farlo erano proprio loro a permettere la debacle di quella rappresentanza cui
appartengono, che più di altre rifugge l’analisi spicciola per abbracciare invece
vedute ad ampio raggio nel tempo e nello spazio. E che proprio per questo ha bisogno
di una costante e infaticabile azione di diffusione e divulgazione, informativa
e riflessiva. In alternativa vince il populismo e la demagogia, ammesso che esista
ancora qualcosa che non lo sia in politica.
Di tutto questo mi lamentavo
allora e, a un anno ed una tornata elettorale di distanza, posso osservare che nella
sostanza nulla è cambiato, ma che forse qualcosa in più si muove. Siamo sempre
di fronte ad un’occasione da cogliere per mettere in pratica quel cambiamento
impellente che richiede una partecipazione informata di tutti alla cosa
pubblica. Siamo sempre ad aspettare che, ognuno per sé, si capisca che fare
politica non significa né candidarsi né mettere una X di tanto in tanto, ma
parlare, discutere, ragionare, ascoltare, capire e riflettere assieme. Che far
politica è un atto quotidiano di partecipazione civile che spetta a tutti. Nel
frattempo qualche intellettuale la faccia ce l’ha messa, e il progetto della
lista civica della sinistra radicale si è ripetuto prendendo qualche voto in
più. Son cose che fanno ben sperare, ma non basta.
Capiamoci. Il problema non è poi dei
singoli, è della società. Una società distratta e senza fiato, che arriva alla
sera sfiancata da lavori ingrati e spesso alienanti, che non vuole ragionare di
massimi sistemi perché ha già abbastanza problemi ogni giorno per sbarcare il
lunario. Che per la testa di questioni pratiche da risolvere ne ha già tante ed
è abituata a delegare qualsiasi cosa trascenda la propria individualità. È lo scacco matto alla partecipazione. È
questa la società settaria del disinteresse per i beni pubblici e per la
cultura “che non si mangia”. È questa la società della mancanza di civismo e
compassione, del cinismo e del parassitare. È il paese che ha paura di
guardarsi allo specchio perché ha vergogna di quello che potrebbe vedere. Molto
meglio nutrirsi dei sogni degli altri che provare a seguire i propri, il
rischio è quello di fallire.
Certo, è la società intera a
doversi sollevare, a invertire una marcia debosciante ed abbruttente che dura
da fin troppo tempo. Ma la società è fatta dai singoli, per cui se non sono loro
in primis ad abbracciare il cambio di rotta, a condividere il proprio coraggio
con gli altri trovandovi una sponda (magari inattesa), a sostenersi gli uni con
gli altri amplificando la propria voce fino a diventare una marea che tutto
travolge... allora non si vede come le cose possano migliorare. Migliorare certo,
cambiare non basta. Sempre che interessi a qualcuno.
RUMORE
Un problema grosso da risolvere è
che pare essere scomparso il concetto di importanza
relativa. Ogni giorno affoghiamo nel calderone dell’era dell’informazione e
della controinformazione senza sapere che direzione prendere. Siamo saturi di
tutto e del contrario di tutto e rischiamo di rimanerci invischiati come a
nuotare in un barattolo di miele. Servirebbe una guida. Si da il caso che
l’evoluzione ci abbia dotato di uno strumento straordinario per orientarci, uno
strumento spesso dimenticato che ha dimora tra le nostre orecchie: il cervello.
È l’uso della ragione e della critica costante che potrebbe guidarci meglio di
qualsiasi altra cosa attraverso il labirinto del web e del mondo globalizzato a
portata di click. È il rimanere attivamente coinvolti nel ricercare
l’informazione che ci serve a rappresentare oggi la vera possibilità di
rivoluzione del pensiero, al di là del supporto tecnologico che di per sé non è
che uno strumento.
Attivamente coinvolti, non
passivamente recettivi di qualsiasi contenuto sia bombardato in nostra direzione...
In questo il web offre sicuramente possibilità nuove di interagire coi
contenuti, molto più della scatola magica televisiva che rappresentava (e
tuttora rappresenta) semplicemente il veicolo di un pacchetto preconfezionato
sparato contro l’homus da divanum a
riempire lo spazio tra le orecchie di cui sopra. Ma di per sé il web non salva
nulla. Pur offrendo per definizione più spazio alla selezione critica dei
contenuti, e persino alla loro creazione, è uno strumento anche quello e va
usato bene.
Ecco perché penso che uno problema
grossissimo della società di oggi sia la perdita delle priorità. Lo spazio
cerebrale viene riempito egualmente da cagnolini che abbaiano o gattini che
tirano la catena del wc, di nani e ballerine, casi umani e fenomeni da baraccone
che aspirano ai loro 5 minuti di celebrità, di tette culi e pornografia
spicciola, di gente che altro merito non ha se non di potersi comprare fama e
rispetto, dell’infotainment strabordante di politici che non si sa dove in
effetti trovino il tempo per fare gli amministratori pubblici, dell’uomo della
strada che grida compiaciuto e con la bava alla bocca contro tutto e tutti che
così non va e nonsipuòandareavanticosì... mi scuserete per il qualunquismo, ma
di qualunquismo si tratta. Qualunque cosa ci diano, ce la ingoiamo senza
chiederci se abbiamo fame o no, e di che cosa. Si perdono le priorità, non si
capisce più cosa abbia importanza e cosa no, a cosa vale la pena dedicare le
proprie (limitate) energie, di cosa dispiacersi e di cosa no, dove interessarsi
e dove tralasciare, dove cambiare canale e dove alzare il volume. Ed è una tragedia. Anzi, una traggedia
(rafforzativo). Perché questa dispersione di attenzione, di risorse cerebrali,
di interesse e di azione fa esattamente il gioco di un sistema che della
partecipazione non se ne fa nulla, anzi. Un sistema che vuole solo creare
l’illusione della partecipazione, per poi distrarre dalle questioni principali
dirottando le energie sul futile e sul del tutto inutile, continuando ad
occuparsi di ciò che conta per davvero nei club privati più o meno esclusivi.
Esiste un antidoto a tutto ciò?
No. Ma c’è una strada faticosa e lunga da percorrere che varrebbe la pena
iniziare ad imboccare: quella della cultura e del dialogo. Non
dell’indottrinamento e delle urla. Quella che legge e riflette per mettere in
fila quello che ha imparato; quella che prima di parlare ascolta; quella che
rimane vigile, sempre, nel farsi domande e nell'usare il proprio raziocinio per
rispondere; quella che stabilisce delle priorità e le segue; quella che guarda
lontano e si lascia scivolare addosso lo stucchevole e volgare teatrino che
ogni giorno ci bombarda per renderci pecore; quella che non ha paura di
esprimere un dissenso costruttivo e che ha la forza di mantenere le proprie
posizioni, ma solo finché ragionando su elementi nuovi non cambierà idea o non
avrà altri elementi da aggiungere. È una strada da insegnare ai nostri bambini
e ai nostri ragazzi, certo, ma da far scoprire anche agli adulti e a chi oggi
regge in piedi il mondo. È una stradina scivolosa e tortuosa da fare con umiltà
e coraggio, ma non ne conosco di migliori da percorrere.
Non mi resta che augurare a tutti
i naviganti buon viaggio.
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