sabato 8 dicembre 2012

It’s evolution, baby!

A volte penso che siamo spacciati. Siamo come un’auto lanciata a folle velocitá contro un muro. In origine non lo sapevamo che stava lí, ma é da un po’ di tempo ormai che lo vediamo forte e chiaro. Evitarlo ormai non si puó, troppo tardi. Le cose sono due: o per lo meno rallentiamo e cerchiamo di ridurre i danni, oppure continuiamo a far finta di niente, ostriche e champagne fino al momento dello schianto.

Ultimamente peró, mi ha colpito pensare che forse dietro questa corsa ci sia ben piú di quel che sembra. Qualcosa che non si vede eppure muove da sempre i fili della storia, instancabile: l’evoluzione della specie.
Darwin diceva che sono i meglio adattati alle condizioni in cui vivono ad avere piú possibilitá di campare e, quindi, di conservare la specie. Bisogna fare un passo in piú qui. Dal punto di vista biologico infatti non é tanto la sopravvivenza dell’individuo ad essere importante, quando quella dei suoi geni. É proprio lí infatti che risiede la descrizione delle caratteristiche peculiari che gli hanno consentito di adattarsi al proprio ambiente cosí bene da poter sopravvivere. Ed é quindi tramandando i propri geni vantaggiosi che questo organismo fa un favore alla propria specie, visto che in futuro i discendenti meglio adattati saranno sempre in numero maggiore, fino a diventare la norma. É cosí, la specie é qualcosa di piú degli individui. Piú grande, piú importante. E quando si evolve, cioé in continuazione, la cosa non é affatto indolore per gli individui che la compongono.

Allora mi chiedo se non sia proprio questo il punto. Viviamo in un mondo che cambia velocemente come mai. É quindi sempre piú necessario sapersi adattare. Chi non riesce a farlo, rimane indietro. Chi ci riesce invece sará la base fondante per la specie del futuro. Quella da cui si ripartirá dopo lo schianto col muro.

É curioso spiegare come accade che qualcuno si riesca ad adattare meglio di altri. Tutto sta nel fatto che in natura, quella cosa a cui anche gli uomini appartengono, la diversitá non é un problema, ma una ricchezza. Se punti tutto sullo stesso numero in una roulette puoi vincere tanto. Ma hai anche tantissime possibilitá di non vincere proprio nulla. Per questo la natura decide di puntare su quanti piú numeri possibile. É per questo che nel processo attraverso cui i geni vengono tramandati cerca sempre di mischiarli il piú possibile. A volte poi accade anche qualche imprevisto, percui il codice non viene riprodotto come dovrebbe: sono le mutazioni genetiche. Intendiamoci, una mutazione genetica non é buona o cattiva in sé. É semplicemente quello che é: un qualcosa di inaspettato. Sebbene siamo portati a immaginarci deformazioni e cose aberranti quando pensiamo alle mutazioni genetiche (magari retaggio di quelle provocate dall’uomo coi suoi bei giocattoli nucleari), in realtá sono un valido strumento in piú nelle mani dell’evoluzione. Perché puó accadere che siano associate a caratteri sfavorevoli, e in quel caso non vengono tramandate visto che l’individuo muore o comunque avrá maggiori difficoltá di riprodursi, ma puó anche succedere che siano favorevoli. E in quel caso rappresentano un bel vantaggio competitivo, non c’é che dire. Un colpo di fortuna. Non stiamo parlando degli x-men chiaramente, ma con le dovute proporzioni il discorso é in realtá abbastanza simile.

La stessa cosa puó succedere con i comportamenti: alcuni favoriscono la sopravvivenza della specie, mentre altri no. Chiaramente qui la cosa é, almeno in teoria, piú semplice visto che non ci sono mutazioni genetiche random di mezzo. Se si vede che un certo  gioco funziona, sarebbe normale iniziare a giocare secondo le sue regole. La realtá non é poi cosí semplice, almeno non per tutti. Probabilmente anche in questo ci sono individui piú predisposti di altri a cambiare, a esplorare, a curiosare e a provare cose diverse. Ma non c’é dubbio che, visto in termini evolutivi, l’eclettismo é la tendenza ad auto-aiutarsi.

Ma che siano caratteri o comportamenti, viene da pensare che il loro valore evolutivo probabilmente diventa evidente solo nel momento in cui serve davvero. Fino ad allora rimane qualcosa che non si capisce, senza valore. Finché non ti rendi conto che in effetti campare senza é dura. Ma ormai é troppo tardi.
C’é da aspettarsi che inizialmente si veda perfino con sospetto, essendo fuori dagli standard. Qualcosa di strano, di stravagante, di anormale. E tutti sappiamo quanto ci piaccia essere considerati normali, ricadere dentro il rassicurante sacco della media.
Pensateci: immaginatevi la prima comunitá di pesci che si sono spinti a vivere fuori dall’acqua. Muoversi non doveva essere la cosa piú semplice: sicuramente dovevano dimenarsi di continuo, scodare a scatti per saltellare di lato. Eppure pensate al primo che ha messo su le zampe... l’avranno guardato stortissimo! Denigrato e sbeffeggiato: “ma guarda te sto fricchettone che si mette in testa! Mica lui scoda come tutti, no! Ma dove vuole andare, con quelle cosacce che gli spuntano dalle pinne! É bruttissimo! Ti diró che poi, secondo me, é pure cattivo!” Eppure presto sarebbe stata l’evoluzione stessa a zittire tutte le malelingue. Ma daltronde é cosí, il diverso fa paura. Percui si osteggia, di deride, si perseguita al di lá di quello che la razionalitá suggerisce. Eppure se cercate di vedere il futuro, é proprio lá che dovreste guardare.

Mi chiedo allora se non siamo di fronte allo stesso processo, senza accorgercene. Si sta sviluppando in una parte sempre maggiore della popolazione mondiale una certa coscienza ambientale. Qualcosa che va al di lá delle patine verdi di facciata, qualcosa di profondo e vero. Un autentico senso di appartenenza, di rispetto e di ammirazione per la natura. I fricchettoni degli anni ‘60 (come venivano affettuosamente chiamati dai loro denigratori) hanno dato il via a questo processo. Beh, a giudicare dalla diffusione sempre maggiore, verrebbe da dire che l’evoluzione sta dalla loro parte. E se é cosí, di certo non é per partito preso. É perché quel modo di vivere e di rapportarsi col mondo, quella coscienza profonda probabilmente é in grado di assicurare una miglior capacitá di sopravvivere nel mondo di oggi. Il fatto che siano stati a lungo derisi, mentre ora – di fronte all’evidenza – vengono in qualche caso osteggiati, in altri strumentalizzati, non fa che accrescere la mia convinzione.

Mi piace allora pensare che sia cosí. E che in futuro questa coscienza si diffonderá ancora di piú fino a diventare comune a tutta la specie. Proprio perché vantaggiosa. Ma non mi faccio illusioni sul come. Il fatto che dobbiamo capire infatti, e al quale probabilmente ci dobbiamo preparare, é che il processo non sará affatto indolore. Per fare un esempio, non mi aspetto che possa essere una diffusione uniforme come quella che avviene da una bustina di té nell’acqua calda, in cui il té si propaga dalla fonte fino ad estendersi a tutto il sistema. Ammesso che potesse funzionare come strategia, non ne abbiamo tempo. Piuttosto sará una diffusione dovuta alla riduzione delle dimensioni del sistema, fino ad includere la fonte e poco piú. Come quando metti un cucchiaino di miele in un secchio pieno di acqua. Che differenza vuoi che faccia? Ma se fai un buco appena sopra il fondo dove si é depositato il miele, l’acqua esce tutta fino ad arrivare appena sotto il buco. Percui é chiaro che in quel modo l’acqua rimasta sará piú dolce di prima. Ma solo perché ce ne sará molta, molta di meno. L’acqua che ci sará permesso tenere dentro al secchio sará tanto maggiore quando piú riusciremo a metterci d’accordo sul frenare quella macchina lanciata contro il muro prima dello schianto inevitabile. Limitare i danni.

Ma anche dopo le tragedie, le catastrofi, la distruzione cui siamo destinati, la specie continuerá il suo cammino. E sará una specie diversa, senza dubbio. Sará una specie meno miope e piú lungimirante. Una specie che saprá vivere in armonia con la natura perché ne avrá infine compreso l’importanza. Sará una specie che é stata in grado, con le buone o con le cattive, di cambiare rotta.

Per lo meno mi conforta allora pensare che, d’ora in poi, ogni volta che mi sentiró deriso o denigrato per manifestare la mia convinzione che quello che stiamo facendo come uomini é essenzialmente e profondamente sbagliato e controproducente, almeno sapró di avere Darwin dalla mia parte.



“Ogni volta che la gente è d'accordo con me provo la sensazione di avere torto.”
Oscar Wilde.




martedì 27 novembre 2012

La speranza é l’ultima a morire

Ho deciso di alzarmi in piedi piú o meno un anno fa. Lo ricordo ancora bene: era una serata tranquilla dell’inverno norvegese, ci si preparava per Halloween. Avevo da qualche giorno aperto il mio vaso di pandora, era stato un documentario. Se ne sarebbero aggiunti tanti altri, ma quello allora fu davvero un epifania. Da lí iniziai un percorso che mi portó a rovistare tra tutti i temi di cui parlo in questo blog, ma al di lá di tutto questo, da lí in poi non riuscii piú a vedere il mondo con gli stessi occhi. Tutto era cambiato, niente escluso. O forse ero io? In effetti fuori tutto rimaneva uguale, ma per la prima volta capivo che la visione del mondo ufficiale poggiava su un castello di carte. E ballava tremendamente, o era quantomeno incompleta. C’era ben altro, lá fuori. E io volevo capirlo. Per la prima volta mi trovai a prendere il mano argomenti che avevo volutamente ignorato come troppo complicati. Gli ingranaggi stessi del mondo di oggi, di cui ben poco mi ero curato sino ad allora, mi apparivano piú interessanti e curiosi che mai. Dovevo capirli, per districare dal mio cuore tutti quei dubbi che con violenza traboccavano per non lasciarmi scampo. Non pensavo ad altro.

Il primo periodo fu davvero come tornare ad aprire gli occhi per la prima volta. Tanto piú che, avido di conoscenza, aggiungevo continuamente dei pezzetti nuovi al mio puzzle. Alcuni si rivelarono in seguito sbagliati, altri soltanto inesatti. Quel che é certo é che l’effetto domino era iniziato e io non potevo piú fermarlo. Lo sentivo dentro di me. Lo osservavo quasi, con la stesso senso di impotenza soddisfatta di quando si guardano quelle tesserine, cosí meticolosamente messe in fila l’una dietro l’altra, cadere e travolgersi senza rimedio. Il mio mondo, cosí come quello di tanti altri, era stato fasullo. Ora stavo scostando il mio velo di ignoranza per comprenderlo meglio.
Per la prima volta mi sentii padrone della mia testa per davvero. E non potevo fare a meno di urlarlo ai quattro venti, di confrontarmi con chiunque mi capitasse a tiro su qualsiasi argomento stessi affrontando. E il mio campo visivo si ampliava sempre di piú. Avevo capito bene? Mi sfuggiva qualcosa che qualcuno poteva chiarire? Ero una spugna. Poi, una volta arrivati a una qualche conclusione, seppur necessariamente provvisoria, sentivo di doverlo condividerlo con chi volesse. Cosí nacque stand up.

Ma da lí le cose sono cambiate, eccome. L’esercizio della scrittura si riveló per me, come daltronde c’era da aspettarsi, terapeutico. I mille fili confusi dei miei pensieri erano costretti a prendere forma sulla tastiera. Percui anche quelli piú nascosti emergevano, quasi magicamente. Capitava spesso che iniziassi a scrivere di qualcosa che poi rimaneva tra le dita per dare spazio a qualcos’altro che sgorgava vigoroso e inaspettato da dentro. Mi ha aiutato molto scrivere questo blog. Mettere in ordine le idee serve sempre, non fosse altro come scusa per pensare. Giá, la meditazione. Cosa poco conosciuta e dal suono orientaleggiante, per la quale oggigiorno di tempo non se ne trova proprio piú. Scrivere era veramente come prendersi un po’ di tempo per fare quello. Pensare. Vi stupirebbe cosa potrebbe succedere a chiunque di voi lo provasse, se giá non lo avete fatto. E vi stupirebbe vedere quanti fili sparsi si riescano ad unire cercando di vedere le cose non sempre con la lente di ingrandimento, ma a volte anche a volo d’uccello. A volte partire da discrorsi meccanicistici é trovarsi a discutere dei massimi sistemi. Filosofia laddove una volta c’era spazio solo per la matematica. Ma daltronde, chi queste cose le ha inventate, giá migliaia di anni fa sapeva bene che il loro confine é ben piú sfumato di quanto oggi ci piace credere. Una delle conquiste piú grosse é stata infatti proprio questa: il recuperare l’amore per il pensiero puro, che ti eleva al di sopra dei fatti contingenti e in fin dei conti ti da la forza, se lo credi, per sostenerli.



Dopo un anno ci sará sicuramente qualcosa che é riuscito meglio e qualcos altro peggio. Ci saranno state cose interessanti e altre noiose, o persino inconcludenti. Ma di sicuro ogni articolo é stato un passo compiuto nella giusta direzione per il momento in cui é stato scritto. Ma verso dove? Non lo so, né lo sapevo quando l’ho scritto. Ma di sicuro era adatto alle sue circostanze e a quello che avevo da dire. Perché mi ero informato sull’argomento, perché mi toccava particolarmente, perché credevo che fosse importante per comprendere meglio il perché ognuno dovrebbe alzarsi in piedi oggi. Ed é curioso come ora, a guardare per un attimo all’indietro, pare che il tutto prenda forma. Pur non avendola in origine. Come quando ci si gira all’indietro a vedere che le tante orme che passo dopo passo hai lasciato sulla sabbia in realtá stanno formando qualcosa di chiaro e definito.

Credo che tutti mi siano serviti a capire meglio a come guardare il nostro mondo di oggi e la crisi che attraversiamo. Ma credo anche che nessuno di loro sia, preso da solo, sufficiente. E sono sicuro che mille altri ne mancano, anche se devo dire che la cosa piú che atterrarmi mi affascina. Perché da qualche parte si inizia sempre, ma invariabilmente non si sa mai dove si finisce. E spesso devo dire che é proprio per questo che il gioco vale la candela. Perché ti insegna in modo perentorio, ancora una volta, di come il fine di ogni percorso non sia la meta, ma il viaggio. Il modo in cui metti un piede davanti all’altro. E il capire che lo fai non per arrivare dove non sai né mai saprai. Ma solo perché sei tu e sei lí, ora. E stai camminando che rimanere fermi non si puó. E allora uno prima l’hai messo lá, che ancora ne vedi l’orma. L’altro lo metterai appena piú avanti, il dove sará questione di deciderlo ora.



Dunque oggi vi parlo proprio di questo. Partendo dal ricordare quel momento di necessitá comunicativa in cui ho iniziato a fare una cosa talmente inutile quanto scrivere su di una pagina che probabilmente una ventina di persone sí e no avrá mai letto. Ma non importa. Perché strada facendo mi sono reso conto sempre di piú che l’obbiettivo principale forse non era la comunicazione, quanto la riflessione. Se poi questa puó essere condivisa con qualcuno, intendiamoci, tanto meglio. Ma quello che voglio dire, qui, é che non bisogna aspettare di essere una rock star per fare qualcosa. Non bisogna aspettare di avere l’occasione per parlare da un pulpito. Non bisogna aspettare un treno che per quando arriverá saremo tutti ammuffiti. Non bisogna aspettare di dimenticarsi cosa si vuole dire, o il perché. Bisogna farlo quando ci si sente. Punto. Battere il ferro finché é caldo. Andrá a finire che é proprio lí che nascono le cose piú interessanti.

Si parla sempre di speranza. La speranza in un futuro migliore. Dove tutto andrá bene, alla fine. Fatto sta che, come al solito, per arrivarci dobbiamo sacrificare il presente. Sacrificare il presente, che é l’unica cosa che a conti fatti conosciamo, per promesse di vanagloria nutrite della migliore delle speranze. Scrivo proprio mentre le solite previsioni di crescita economica sono state spostate appena piú in lá. Guardacaso, come sempre, alla fine dell’anno prossimo. Lontano, quindi, ma mai troppo da toglierci la speranza che sia davvero possibile. O che vedremo ricompensati i nostri sacrifici. Ci sará ancora parecchio da stringere la cinghia, miei prodi, ma ce la faremo. Io, peró, non ci credo. Non credo nella speranza, credo in quello che uno puó fare con le sue mani. Qui e oggi. Credo nella conoscenza prima di tutto, quella che ti permette di agire con coscienza e in modo efficace. Quella che, sapendo dove ci troviamo e non dove potremmo essere in futuro, ci aiuta a prendere una buona decisione.Forse non la migliore. Sicuramente ci aiuta a non mettere il prossimo piede in una pozza di merda per avere un giorno, chissá, una caramella. Della speranza senza fondamento non me ne faccio niente. Io credo nell’impegno. Quello stesso che, oggi piú che mai, ci spinge tutti a far qualcosa per spegnere quel fuoco che ci infiamma dentro. Quello che non ci fa girare la testa dall’altra parte e forse non ci fa nemmeno dormire la notte. Quello che non ammette ritardi né deroghe, né tantomeno scuse. Quello che serve a darci la certezza, non la speranza, che giá domani andrá meglio. Quello che ti guarda negli occhi e ti chiama per nome, giorno dopo giorno, dicendoti che é ora di alzarsi in piedi.



"La speranza è una trappola, è una brutta parola, non si deve usare. La speranza è una trappola inventata dai padroni, (...) state buoni, state zitti, pregate, che avrete il riscatto nell'aldilà. State buoni,sì siete dei precari, ma tanto tra due o tre mesi vi riassumiamo, vi daremo il posto, abbiate speranza. Mai avere la speranza, la speranza è una trappola, è una cosa infame inventata da chi comanda."

Mario Monicelli







sabato 3 novembre 2012

Il mito della disoccupazione


In inglese esistono due parole per esprimere quello che noi chiamiamo, semplicemente, lavoro. Una é work, che esprime il concetto di lavoro in senso ampio come attivitá produttiva con cui l’uomo – attraverso il dispendio di energie fisiche e intellettuali – si procura beni e servizi. Per questo, la parola work é almeno vecchia quanto l’uomo. L’altra, molto piú recente, é job. Rispetto a work, job é prettamente il lavoro salariato. Cioé esprime il fatto che delle persone prestino il loro tempo, le loro energie e capacitá per svolgere mansioni non necessariamente volte a soddisfare le loro necessitá o aspirazioni, ma per le quali ricevono un compenso monetario.


LE ORIGINI DELLO SGOBBONISMO

Si pensa che il termine job abbia origine nel XVI secolo, lo stesso periodo in cui nascono gli stati moderni e il sistema monetario cosí come oggi lo conosciamo, quello delle banche centrali. Le banche centrali sono, giá allora, enti controllati da privati che assolvono la funzione essenzialmente pubblica di creazione e controllo della moneta dello stato.

A proposito della moneta, ci sono un paio di cose interessanti da notare. La prima é che il valore della moneta risiede nella fiducia che la circonda. Trattandosi di una convenzione attraverso cui regolare gli scambi di beni e servizi, non é tanto il valore in sé dell’oggetto che si usa come moneta a darle effettivamente valore, quanto la sicurezza che chiunque potrá poi cambiarlo in qualsiasi altra cosa. Ne deriva che moneta puó in realtá essere qualsiasi cosa, tanto che nel tempo si sono usate conchiglie, pelli e perfino il sale come moneta! É quindi l’alone di fiducia che la circonda a darle valore, ma come si crea? Beh, questa é la seconda cosa interessante...
É in realtá lo stato stesso a crearla ma in un modo che nessuno si aspetterebbe: con le tasse! É infatti creando ad arte la necessitá per i cittadini di pagare le tasse con la moneta emessa dallo stato che questo letteralmente li costringe a procurarsela, altrimenti non avrebbero necessariamente bisogno e potrebbero magari continuare a barattare o a usare il sale invece che le banconote. É quindi sapendo che chiunque potrá usare quella carta per pagare ció che lo stato richiede che tutti sanno, di colpo, che quella cosa ha valore per tutti e che si puó usare per scambiarsi tutto il resto.

Dunque la gente inizia a lavorare per avere monete piú che per altro. In questo modo il risultato del lavoro si uniforma, é sempre e comunque moneta. Moneta che in sé non é niente, ma che in potenza puó essere tutto. Il lavoro diventa in questo modo job, ed é forse lí che iniziano tanti problemi.
La moneta diventa infatti l’unitá di misura non solo del valore delle cose, ma della vita stessa e delle persone. Anche tu diventi misurabile in termini di monete: quelle che possiedi o quelle che sei in grado di guadagnare in un certo tempo. Non importa il come, non importa se sei un artista eccelso o semplicemente un subdolo truffatore. Sono i soldi a dare prestigio, non la qualitá delle persone. E i soldi, cosí come ogni altra forma di ricchezza, danno potere. E il potere, si sa, da sempre piú soldi.


DISTORSIONE DELLA REALTÁ E OMOGENEIZZATO MONETARIO

Eccoci dunque come d’incanto arrivati ad una situazione che conosciamo molto bene. Le scelte che compiamo nella nostra vita, cosí come – e forse piú – le scelte che NON compiamo poiché le diamo per scontate, dipendono sempre piú dai soldi che dalle vere capacitá e aspirazioni delle persone. Si tratta in definitiva di un aridimento estremo della nostra societá, in cui l’infinito ventaglio di possibili espressione della diversitá umana si riduce ad essere sempre e costantemente valutata usando lo stesso metro. Li sordi.
Succede quindi che quando conosciamo qualcuno gli chiediamo “cosa fai?”, avendo giá chiaro in mente – sia noi che lui/lei – che intendiamo il lavoro. E lavoro inteso come job. Semplifichiamo le persone e la loro estrema complessitá facendole passare per l’imbuto del lavoro, omogeneizzazione monetaria. Le capacitá, i talenti, gli hobbies o le inquietudini e aspirazioni delle persone passano sempre piú in secondo piano.

“Cosa fai?”
“Io vivo, e tu?”

Ma dietro questo impoverimento di relazioni, c’é ben altro. E qualcosa di forse molto piú concreto. C’é un sentimento di scarsezza cronica, di insufficienza costante e di preoccupazione per futuri bisogni insoddisfatti che ci obbligano costantemente a scendere a compromessi, tutto sempre in nome del dio denaro. Quanti possono dirsi cosí fortunati da lavorare in qualcosa che gli piace per davvero? La necessitá é peró quella di arrivare a fine mese, cioé di avere di che vivere. Percui é normale, sempre piú normale, fare buon viso a cattivo gioco. Verrebbe da dire che é quasi il contrario, ultimamente. Non é normale quando trovi qualcuno soddisfatto del proprio lavoro. Oggi queste persone appaiono sempre piú dei privilegiati.


SCARSEZZA O NON SCARSEZZA?

Ma quali sono le radici di questa scarsezza? E dopotutto, esiste per davvero!? C’é veramente bisogno di tagliare i servizi sociali e aumentare le tasse per poter fare qualsiasi altra cosa? Abbiamo visto che la ricchezza si misura in termini monetari, percui lo stesso vale per la scarsezza. A questo punto, se nel sistema monetario di oggi i soldi se li stampa lo stato, dov’é il problema? La questione é spinosa, c’é da tenere conto dell’inflazione, del tipo di attivitá fornite (produttive o speculative) e di molte altre cose, ma in generale si potrebbe concludere che questa scarsezza non ha ragione di esistere. O potrebbe perlomeno essere infinitamente minore.
A ben vedere uno potrebbe chiedersi: su che base misuriamo la scarsitá? Sulle vacanze in resort 5 stelle ai Caraibi? Sulla quantitá di depositi milionari? Oppure sul numero di Ferrari che girano per strada? Mi pare non ci siano dubbi nel dire che questo senso di scarsitá si riferisce alle cose che ci servono necessariamente per vivere. Il senso di scarsezza riguarda il poter soddisfare le proprie necessitá primarie. Percui eliminare la scarsitá nella fornitura di alimenti, acqua, energia, case e poche altre cose significherebbe giá ridurre sostanzialmente il problema. Tutti dovrebbero avere accesso a queste cose, per le quali non dovrebbe esistere scarsezza. Bene.

Ma soddisfare le necessitá primarie per tutti significa o uno stato iper-assistenzialista in cui nessuno si deve piú nemmeno preoccuparsi di lavorare, oppure significa garantire un lavoro a chiunque in modo che tutti possano avere una entrata minima. Nel secondo caso ognuno sente di dover contribuire in qualche modo al bene della collettivitá, ma nessuno gli impone piú il come. Significa quindi cambiare nuovamente il paradigma lavorativo, facendolo tornare ad essere work, non piú job. Se potesse esistere una situazione nella quale, indipendentemente da quello che fai, avresti di che vivere, perché mai dovresti fare qualcosa che non ti piace? L’unico caso che mi viene in mente é “non so cosa mi piace”. Bene, nel caso in cui qualcuno non abbia aspirazioni particolari ci sará sempre una marea di lavori socialmente utili (ossia utili alla collettivitá) da dover fare. Nel momento in cui l’hai capito, sei libero di fare quello che meglio credi, che piú ti realizza e ti fa stare bene. La magia in questo caso é che é fisiologico che il tuo lavoro sia anche qualcosa che fai con trasporto e passione, quindi bene. Con voglia di migliorarti costantemente non perché qualcuno te lo impone, ma perché sei tu a volerlo. Se cambiano le condizioni, sei libero di cambiare lavoro. Nel momento in cui si verifica questa condizione é anche il settore privato a beneficiarne, in quanto si vengono a creare imprese nuove, espressione delle aspirazioni di persone che seguono i propri sogni e i propri ideali. Non la necessitá di profitti e benefici economici. Lo stato é quindi tramite tra una disoccupazione che non ha ragione di esistere e il settore privato in crisi.

Ma facciamo un esempio per capirci meglio. Immaginiate, con grande sforzo e solo se ci riuscite, una situazione in cui la disoccupazione é alta e allo stesso tempo non ci sono abbastanza risorse per offrire servizi pubblici di qualitá (ad esempio: la salvaguardia del territorio dal dissesto idrogeologico, oppure la manutenzione delle infrastrutture, oppure ancora l’assistenza sanitaria). Ci siete riusciti? Complimenti, non era facile! Ok, pensate ora: qual é effettivamente il fattore limitante del processo, i soldi o la mancanza di risorse (pensiamo in particolare a quelle umane in questo caso)? Chiaramente sono i soldi. Pare che non ce ne siano mai abbastanza da poter pagare tutti quelli che dovrebbero fare quelle cose. Di lavoro da fare invece, chissá come mai, ce n'é sempre anche troppo! Ma allora se per un momento aggirassimo il sistema dei soldi, niente vieterebbe di prendere la massa dei disoccupati e metterli a lavorare in queste cose che servono eppure nessuno fa. In questo modo loro sentirebbero di avere una funzione, magari imparerebbero un mestiere, si qualificherebbero etc. E se in cambio gi dessimo anche (in un modo o in un altro) di che vivere, dove starebbe il problema? Nello stampare un altro po’ di carta straccia?

Nel momento in queste persone avranno soldi da spendere per comprarsi di che vivere, sará l’intera economia a beneficiarne, molto piú che con le tristemente famose cure a base di lacrime e sangue! E quindi significa che magari le imprese del settore privato torneranno ad un certo punto ad aver bisogno di lavoratori, piú che a doverne licenziare, e che li dovranno per forza di cose pagare meglio di quello che fa lo stato col lavoro garantito. Ci saranno quindi delle persone che transiteranno semplicemente attraverso il lavoro garantito, piuttosto che stare a casa a deprimersi su come le cose vanno male e non si vede la luce in fondo al tunnel, per poi tornare a lavorare nel settore privato. E se poi i salari aumentano troppo? semplice, allora – solo allora – li si tassa un po’ di piú per evitare l’inflazione.


IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA

Ne deriva che la piaga della discoccupazione, oggi, é figlia (anche) di un sistema basato totalmente sul lavoro salariato. Un sistema in cui non esistono piú, almeno in teoria, persone che vengono comprate per lavorare (gli schiavi), ma in cui comunque ogni giorno miliardi di persone vengono letteralmente affittate per farlo. Il fatto é che non hanno alternativa, se vogliono campare.
Da lí l’importanza del lavoro e della professione nella presentazione personale e il suo peso nella vita di ognuno di noi. Da lí la distorsione di valori sempre orientata verso l’ottenere ricchezza economica. Da lí un sistema basato sulla competizione perenne, giudicata necessaria per aggiudicarsi le scarse risorse disponibili a scapito degli altri. Da lí il giustificare, seppur magari inconsciamente, la povertá. Perché in un mondo di risorse scarse qualcuno sará necessariamente povero. Da lí la frenesia di dover accumulare ricchezza pur mantenendola improduttiva (speculazione) piuttosto che usare non piú di quel che ci serve, quando ci serve. Da lí un sacco di altre malattie della nostra societá.

Ma la disoccupazione dilagante, con tutte le piaghe sociali che ne derivano, é anche figlia di una scarsezza artificialmente creata e mantenuta dagli organismi che controllano le politiche monetarie. Scarsezza che, attraverso una reale oculata gestione delle risorse, di fatto non avrebbe ragione di esistere. Gestione basata sulla condivisione di beni e servizi e sulla cooperazione degli sforzi per il bene comune piú che sulla proprietá privata a tutti i costi e sulla competizione predatoria. E tutto questo perché, non dimentichiamocelo, la scarsezza si misura in termini di qualcosa – la moneta – che siamo liberi di creare e distruggere a piacimento. E che non ha nessun valore in sé e per sé.

“Non confidare nei soldi, non sono la realtà.” (Blow)








domenica 28 ottobre 2012

The dark side of the euro


A volte, a ben scavare, uno si accorge che nel mondo succedono cose strane.


Basta considerare per un momento la questione dell’euro. Sará possibile, mi dico io, che gente comune che si occupa di economia in maniera non piú che amatoriale – come il sottoscritto –  riesca a dipingersi in mente un quadro chiaro del perché non si puó andare avanti, mentre gli eruditissimi e rispettatissimi tecnocrati che ci governano ad ogni livello (non solo in Italia) non riescono davvero a vedere il lato oscuro dell’euro?

Uno deve per forza pensare che sia malafede. O forse é solo un'estrema chiusura mentale che sfocia nell'idiozia? Probabilmente entrambe, ma in fin dei conti nessuna delle due. Dopotutto non dimentichiamoci che balliamo costantemente sui carboni ardenti del caos, che ci piaccia o no. Ma andiamo per gradi. Analizziamo prima brevemente il problema.


IMPORTANZA DELLA SOVRANITÁ MONETARIA

L’euro é la conseguenza dell’unione monetaria di piú paesi, ognuno dei quali é rimasto esattamente quello che era prima, meno il fatto che ora usa la stessa moneta degli altri. Non é quindi un’unione economica, fiscale, politica, né tantomeno culturale. Dio ci scampi. Solo monetaria. Ma giá basta e avanza.

Il poter gestire la propria politica monetaria é quello che per uno Stato si chiama sovranitá monetaria, ed é una cosa FON-DA-MEN-TA-LE affinché uno Stato possa definirsi tale. Il compito di uno Stato infatti, non mi stancheró mai di dirlo, é quello di fornire ai propri cittadini i servizi essenziali a garantirne il benessere e i diritti fondamentali. Non il pareggio di bilancio, ma benessere e diritti. Lo Stato infatti non é una famiglia che deve arrivare a fine mese coi conti a posto. E questo perché le famiglie usano la moneta, lo Stato la crea. E quindi non ha senso pensare che possa non averne abbastanza. Anzi, dovendo adempiere a quelle funzioni che gli spettano ed essendo l’unico in grado di creare moneta al netto, é proprio a lui che spetta spenderla prima di tutti. Deve quindi necessariamente avere i conti in rosso a fine mese. Ammesso che la moneta sia la sua e la controlli lui, appunto.

Ora il discorso che va per la maggiore é che in ogni caso se ne stampasse troppa finirebbe per materializzare quel temutissimo spauracchio che é l’iper-inflazione modello Repubblica di Weimar o Zimbabwe, ossia rialzo spropositato dei prezzi e crollo del potere di acquisto. In realtá la questione é molto piú complessa e non c’é un semplice legame diretto di causa-effetto tra immissione di liquiditá in un sistema e inflazione. Bisogna infatti vedere di che sistema stiamo parlando e per che cosa si usa quella nuova moneta.
Infatti non é che uno Stato immetta liquiditá nell’economia sparandola per aria, magari con un cannone spara-banconote (le monete farebbero troppo male credo). In realtá lo Stato prima di tutto si auto-finanzia per mettere in moto attivitá produttive e fornire servizi, il che attiva l’economia creando occupazione e quindi benessere. Poi finanzia le banche, che rilasciano crediti controllando che le credenziali dei richiedenti siano soddisfacenti (almeno in teoria, come ci insegna la storia recente), il che mette in moto altre attivitá produttive e cosí via. Non é quindi che i soldi si fiondano direttamente nelle nostre tasche di spendaccioni, ma prima passano attraverso il filtro della spesa pubblica e dell’occupazione. Fino a che il denaro circola nell’economia reale infatti, quella delle persone che lo usano per vivere, che é il motivo per cui esistono i soldi dopotutto, ció non puó che far un gran bene a tutti: tutti hanno da lavorare, con gli indubbi vantaggi sociali che ne derivano, tutti hanno da mangiare e da spendere il giusto per vivere bene. Se poi il potere d’acquisto aumenta troppo lo Stato puó sempre regolarlo per tempo aumentando un po’ le tasse. Ma non é che in origine le tasse servano allo Stato perché lui i soldi non ce li ha, visto che se li puó stampare da solo! Notate che in questo schema non esiste la parola speculazione, ossia il guadagno per guadagnare. É importante ricordarsi sempre che la moneta é infatti uno strumento, non un fine. Il suo uso deve quindi essere vincolato ad attivitá produttive o a fini sociali.

Ma mettiamo pure che la cosa ci sfugga di mano. Si guadagna tutti troppo e va a finire che i soldi non valgono piú granché. Quanto ci vorrá? Qualche annetto almeno? E fino a che punto nel momento in cui ci si rende conto di questa cosa non la si riesce a fermare? Non vale la pena provare piuttosto che morire giá di fame adesso per giocare al gioco del rigore monetario a tutti i costi? Ci rendiamo allora conto del perché una politica monetaria volta esclusivamente al controllo dell’inflazione (come é dichiaratamente quella della BCE) non ha senso? La politica monetaria é uno strumento preziosissimo per lo Stato, attraverso cui perseguire una piena occupazione e il benessere sociale. Non per controllare l’inflazione punto.


ALTRIMENTI?

La gestione in autonomia della propria politica monetaria é quindi fondamentale per permettere ad uno Stato di finanziarsi direttamente, senza ricorrere ad alternative controproducenti. É infatti essenzialmente nel momento in cui noi non abbiamo piú la nostra sovranitá monetaria che ci rimangono solo due strade per finanziare la spesa pubblica:
  1.  tartassare di tasse cittadini e imprese: in questo caso le tasse sí che servono a finanziare lo Stato, perché questo non emette piú la sua moneta e quindi la deve racimolare laddove ne trova. Va da sé che i cittadini spenderanno meno perché dovranno tirare la cinghia e le imprese perderanno capacitá produttiva, percui l’economia é destinata a rallentare;
  2. oppure indebitarsi presso privati (mercati finanziari), cui dovremo pagare interessi sempre piú alti nel tempo aumentando costantemente il debito pubblico, che é un vero debito solo nel momento in cui si contrae con dei privati. Non lo sarebbe in assoluto infatti se fosse contratto con la propria banca centrale, che é parte dello Stato stesso, percui l’uso stesso della parola debito sarebbe fuorviante.

Se la cosa sfugge di mano, va a finire che si arriva perfino a tagliare la spesa pubblica. Ma va? Suona quasi familiare...


CONCLUSIONE

Ora, é chiaro che se per un profano come me basta informarsi un po’ per mettere in fila queste cose, i nostri professoroni le sanno perfettamente sin dall’inizio. E allora? Cosa dovremmo pensare di lorsignori? Malafede o idiozia?

Come sempre, probabilmente la veritá sta nel mezzo. Nel senso che qualcuno con tutto questo sistema ci ha fatto dei gran soldi. Ricordiamo che un sistema di questo tipo taglia i servizi ai cittadini e li dissangua di tasse, il tutto per pagare gli interessi su un debito che lo Stato ha contratto con dei privati. Tagliando i passi intermedi, significa quindi prendere la ricchezza diffusa alla base e concentrarla nelle mani di pochi privati al vertice della piramide sociale.
Ma non vogliamo essere complottisti piú di tanto. Va riconosciuto infatti che esistono in questo mondo dinamiche cosí complesse che, pur a volerlo fortemente, sfuggono al nostro controllo. Puó essere quindi che come sempre queste cose siano diventate evidenti solo ora, ma non lo fossero prima. Ognuno puó mantenere il proprio grado di scetticismo di fronte a queste affermazioni – e il sottoscritto lo manterrá in toto – eppure dopotutto é cosí. Magari l’obbiettivo era proprio quello che ci hanno venduto in origine, ossia incrementare i commerci e il turismo in Europa beneficiando di una moneta unica. Ora, io capisco che a volte i turisti possano essere un po’ rincoglioniti e si sbaglino a fare due conti, ma devo dire che i commercianti (almeno quelli che di soldi ne muovono sul serio) credevo che almeno la calcolatrice la sapessero usare. Mi sembra quindi una scusa incredibilmente semplicistica, ma magari era molto piú articolata e complessa in origine e questo é solo quello che é stato venduto a noi popolo.

Lasciamo allora stare il passato, che passato resta e la dietrologia non serve a nulla. Quello che mi interessa veramente é il futuro. La domanda ora quindi é: perché tutti continuano a negare che le cose vadano strutturalmente male perché sono marce le regole del gioco a cui stiamo giocando? E perché, al farglielo notare, tutti insistono che queste regole non si possano cambiare? E qui allora mi dispiace, ma il passato torna di stretta attualitá. Perché il discorso é esattamente lo stesso: cui prodest? A chi conviene? A noi non conviene di certo, mi sembra chiaro. Di lacrime e sangue ne stiamo versando giá anche troppe, e mi pare che a ben vedere siano perlopiú innecessarie. Quindi dovremo davvero continuare a giocare a questo massacro per molto ancora? Quei signori incravattati che ci dicono che é impossibile cambiare le cose, ci sono o ci fanno? Perché essendo una convenzione umana, con che faccia ci dicono che non si puó cambiare? E perché? Malafede o pura e semplice idiozia?








lunedì 22 ottobre 2012

Truffa?

PREMESSA NECESSARIA n. 1

Non tutti lo sanno, ma il denaro é stato inventato come mezzo di scambio tra merci. In principio si usavano piccole quantitá di materiali luccicanti e rari, per questo considerati preziosi, ma da un certo punto in poi ci si é voluto perfino evitare il fastidio di andarli a pescare lá dove fossero e si é iniziato a usare semplici pezzi di carta. Il valore di questi pezzi di carta, che chiamiamo banconote, risiede puramente sulla fiducia che le circonda. Ossia, siamo tutti d’accordo che le possiamo usare per scambiare qualsiasi tipo di merce, per questo ce le teniamo strette e le accettiamo. Purtroppo il legame é diventato cosí stretto che abbiamo iniziato a confondere il mezzo per il fine. In ogni caso il denaro, monete o banconote che siano, rimane solo un mezzo. Non racchiude nessun tipo di valore in sé. Il valore é rappresentato da quello per cui lo possiamo scambiare.


PREMESSA NECESSARIA n. 2

Lo Stato é quella unione di persone che decidono di condividere diritti e doveri. Piú o meno. Fatto sta é che certi servizi non ha senso che ognuno se li renda per sé, percui ci si organizza e li si fa una volta sola, e bene,  per tutti. Penso soprattutto a cose essenziali del tipo: acqua, energia, scuola, sanitá. Poi ci sono anche gli aiuti a chi ne ha bisogno perché sfortunato o semplicemente perché se lo merita (bambini, anziani, mamme in cinta etc.). É il famoso stato sociale, che provvede ai bisogni dei propri cittadini.


DOMANDA

Come puó lo Stato fornire ai suoi cittadini questi servizi? Semplice, visto che abbiamo detto che lo Stato é un “mettersi d’accordo” basterá mettersi d’accordo per farlo e sul come farlo. Il fatto che per farlo si debba passare attraverso la moneta é, ancora una volta, un mero accidente. Si potrebbe usare qualsiasi altro mezzo di scambio, la sostanza non cambierebbe affatto. Bisognerá scavare sottoterra per tirare fuori le risorse, bisognerá produrre energia in qualche modo, distribuire acqua, educare i ragazzi, creare ospedali e metterci dentro dei dottori capaci etc. Questo é il vero valore della questione, la moneta rimane un mezzo attraverso cui questo valore raggiunge gli utenti. Secondo questo tipo di convenzione, se lo Stato vuole fornire servizi dovrá quindi spendere moneta affinché non debbano farlo i cittadini. É la famigerata spesa pubblica.


ULTIMA PREMESSA

Mi pare giusto che le persone che vivono su di un territorio possano usufruire di ció che quel territorio ha da offrir loro. Ne deriva che uno Stato ha il diritto di usare le risorse presenti sul suo territorio, cosa piú o meno riconosciuta da tutti. E mi sembra logico pensare che possedendole ne puó disporre come meglio creda, percui é del tutto legittimo che le usi per fornire quei servizi che sono la ragione stessa della sua esistenza. In quel momento, qualora decida di fare un passo intermedio tra risorse e servizi passando per la moneta, ne deriva che lo Stato dovrebbe necessariamente essere padrone di quella moneta. Ossia, che ne possa stampare senza problemi tutta quella che gli serve per fare tutte quelle cose che fanno gli Stati.


IL DUBBIO GROSSO

Fin qui la logica teoria, per qualche motivo peró non é cosí. Per qualche motivo sarebbe dannoso che lo Stato stampi di per sé tutta la moneta che gli serve. Cioé, di risorse ne puó avere quante ne vuole, ma la moneta proprio no. Con quella proprio non funziona. Viene fuori che esiste questa cosa che si chiama debito pubblico, ossia il debito dello Stato, ossia il debito di tutti quelli che lo Stato compongono, che é quando il bilancio tra moneta emessa e moneta guadagnata é in negativo. Pura contabilitá. Quindi se il debito pubblico aumenta troppo non va bene, perché altrimenti poi chi lo ripaga? E piú si va avanti piú sará fatica restituirlo, quindi non é mica giusto nei confronti delle generazioni future, o no? Non bisogna mica essere egoisti e scaricare tutto il peso di noi spendaccioni sui poveri giovani...

E allora viene fuori che per ridurre o nei casi migliori addirittura eliminare questo debito pubblico - il famoso pareggio di bilancio - lo Stato deve limitare la spesa pubblica e anzi tassare i cittadini, ossia riprendersi parte di quei soldi che lui stesso ha stampato, oppure chiedere di comprare pezzetti di questo debito pubblico in giro, in cambio sempre di quei soldi che lui stesso ha stampato.

Ora uno si rende conto che qui c’é qualcosa che non torna non appena fa due semplici ragionamenti:
  1. Se lo Stato é padrone di stampare la propria moneta in quanto mezzo per usare le proprie risorse, perché mai si dovrebbe preoccupare di riaverne indietro dai cittadini o da chi per loro? Cioé, dire debito pubblico significa che lo Stato si sta indebitando con sé stesso, ma allora che problema c’é?
  2. Se proprio servono soldi per fornire quei servizi che rendono lo Stato uno Stato in cui vale la pena vivere, da dove dovrebbero venire fuori se non proprio dal debito pubblico, che altro non fa se non tramutarsi in servizi pubblici?

Qualcuno che ne ha viste tante diceva che a pensare male si fa peccato ma spesso ci si azzecca. Ebbene, il fatto che questo controllare il debito pubblico passi per una cosa cosí necessaria parrebbe proprio uno specchietto per le allodole.


LA DURA E CRUDA REALTÁ

Il fatto é che in realtá l’emissione di moneta oggi non é piú prerogativa esclusiva dello Stato, attraverso la propria banca centrale, anzi é perlopiú (fino al 95% della moneta circolante circa) di banche private che lo creano dal nulla attraverso il meccanismo della riserva frazionaria. Significa che ogni volta che concedono un prestito in realtá non toccano le proprie riserve di denaro, ma ne creano di nuovo semplicemente segnandolo come attivo sui prori libri contabili a fronte del passivo del cliente che contrae il prestito, di fatto aumentando con un gioco di prestigio il proprio capitale monetario. In questo modo concentrano la stragrande maggioranza della moneta circolante nel sistema nelle proprie casse, cosicché spesso lo Stato é costretto a indebitarsi con loro invece che con la banca centrale (che ha dei limiti nell’emissione di moneta fisica) in cambio dei propri Titoli di Stato. In questo caso il debito pubblico diventa quindi un debito vero, in quanto contratto con privati. Su di esso lo Stato dovrá perdipiú pagare un interesse, in cui oramai se ne va ogni anno la maggior parte della spesa pubblica. E addio benessere sociale.

In definitiva si tratta della cessione di fatto di una prerogativa dello Stato – la gestione monetaria – in mano a dei privati. Lo Stato quindi é sempre piú indebitato per compare la propria stessa moneta, che altro non é se non una convenzione per poter usare le risorse che gli appartengono di diritto. Va da sé che ció é completamente contrario al bene della collettivitá e in contrasto con lo stesso concetto di Stato, e a beneficio esclusivo delle banche. 
Pertanto il voler condannare il deficit e l’aumento di debito pubblico assimilandolo a una situazione di normale economia domestica che ognuno di noi si trova ad affrontare ogni mese equivale al distogliere l’attenzione da tutto questo. Quel che succede in realtá é che 

LO STATO PRENDE LE RISORSE CHE APPARTENGONO A TUTTI 
E LE SCAMBIA PER PEZZI DI CARTA SENZA VALORE 
CONTROLLATI DA POCHI PRIVATI, CHE NE VOGLIONO SEMPRE DI PIÚ. 
IL PROCESSO LIMITA QUINDI LA TRASFORMAZIONE 
DI RISORSE PUBBLICHE IN SERVIZI PUBBLICI, 
TRASFERENDOLE INVECE NELLE MANI DI POCHI PRIVATI 
ATTRAVERSO UN MERO STRATAGEMMA CONTABILE.

Vale la pena ricordare come ció avviene infatti senza essere vincolato da alcuna costrizione fisica, ma da pure convenzioni umane. Chi controlla la moneta quindi controlla quel collo di bottiglia attraverso cui passa lo scambio che attraverso di essa avviene, diventando proprietario di entrambi i lati dello scambio: delle risorse, di cui puó regolare la cui estrazione, e dei cittadini, a cui puó controllare l’erogazione di servizi. 

Lo Stato é quindi limitato e controllato per aver confuso un mezzo, la moneta, per il fine: trasformare risorse pubbliche in servizi pubblici. Bel trucco, non c’é che dire.


MA C’É DI PIÚ

Questa demonizzazione continua del debito pubblico gioca sul  voler mascherarlo con qualcosa di nobile e cui siamo naturalmente sensibili: la sostenibilitá. Il garantire un futuro vivibile attraverso qualche limitazione nel presente. L’effetto voluto é peró quello di riuscire a svincolare il concetto di spesa pubblica da quello di benessere sociale. La spesa pubblica é sbagliata, insostenibile. Il suo legame col benessere sociale é cosí presto dimenticato e mistificato.

Ma oltre al danno la beffa: in questo modo continua in realtá a mancare una vera sostenibilitá. E a maggior ragione, visto che l'unica preoccupazione in tempi di redistribuzione della ricchezza dal basso (lo Stato) verso l'alto (quei pochi che controllano la moneta), e in un'epoca in cui il denaro é il dio incontrastato (confusione tra mezzo e fine), l’unica sostenibilitá parrebbe essere quella di bilancio mentre tutto il resto viene sacrificato su questo altare fasullo. Un altare fasullo creato ad arte.
In questo modo non solo dimuisce la sostenibilitá ambientale della societá, si pensi alle esternalitá delle varie fase di produzione, esercizio e smaltimento, ma anche quella sociale. Per via della delocalizzazione della produzione in contesti a basso costo della mano d’opera ma in cui i diritti umani e del lavoro vengono continuamente calpestati; ma anche nel nostro stesso occidente civilizzato, in cui la demonizzazione del debito pubblico altro non fa che cancellare le conquiste sociali di decenni di lotte della societá civile.


RIASSUMENDO

La necessitá del pareggio di bilancio, di tagliare il debito pubblico, di ridurre la spesa pubblica... é una truffa che sfrutta il sentimento innato che non si possa vivere senza preoccuparsi del futuro. Ci siamo arrivati, ancora una volta, svincolandoci dalla fisica del pianeta (cui competerebbe dettare le regole di una vera sostenibilitá) per aggirarci esclusivamente sul piano delle leggi create dall'uomo. Leggi spesso volutamente complicate e astruse in modo da garantire la loro gestione ed il loro controllo esclusivo agli adepti della setta di turno. Si creano sacerdoti che governano il mondo secondo i precetti che essi solo conoscono e conservano gelosamente, e che tramandano solo agli eletti che un giorno prenderanno il loro posto. Il tutto a loro beneficio esclusivo.

Gli ignoranti seguiranno ciecamente, sacrificandosi per la loro religione senza fare domande.

Questo é il mondo in cui viviamo. Per questo serve tornare a ragionare.

Per conoscere, ma anche per sapere cosa serve conoscere.






martedì 16 ottobre 2012

Collasso!


Recentemente ho letto un articolo di Ugo Bardi, di ASPO Italia (l’associazione che studia il picco del petrolio). L’articolo, lungi dall'essere catastrofista, analizzava lucidamente il collasso di una civiltà a noi molto vicina, l’Impero romano, secondo la teoria dei sistemi. E lo faceva a titolo di esempio, visto che la stessa analisi potrebbe farsi per qualsiasi altra civiltà, ma non a caso.

Tuttora ci sentiamo i discendenti diretti dell’Impero romano, li guardiamo con ammirazione e a volte perfino con nostalgia. Li vediamo come una società pura e retta, libera da fronzoli e in cui valori erano profondi e la disciplina ferrea. Pensiamo che fu questo a permettergli, a dargli il quasi sacro diritto, di esportare la cultura in tutto il mondo allora conosciuto. Già, esportare la cultura. Iniziate a capire dove voglio andare a parare?

L’Impero romano sono le nostre radici, la culla della civiltà moderna si direbbe. Erano grandi ingegneri, hanno unito l’Europa con le loro strade, i loro acquedotti le hanno dato da bere e i loro anfiteatri ne hanno portato i fasti fino ai giorni nostri. Il diritto per come lo conosciamo l’hanno inventato loro. Si tende a dimenticare però una piccola cosa: anche quella volta, i romani, non erano gli unici in Europa, né probabilmente i più civilizzati. Erano civilizzati in quel modo, punto. Il problema è che la storia la scrivono sempre i vincitori. E pertanto tutti gli altri erano non più che barbari in attesa di essere civilizzati dai nostri amici a suon di gladio.

A guardar bene l’epopea romana, come fa il signor Bardi, si notano tante analogie con qualcosa che continua a succedere al giorno d’oggi, proprio sotto il nostro naso. I romani erano costretti ad espandersi per poter sostenere la loro struttura imperiale, la macchina burocratica, i lussi dei palazzi e le potentissime legioni. Avevano bisogno di oro da dare in pasto ai legionari, in modo che questi continuassero a combattere per loro, per difendere le frontiere. E che le terre conquistate producessero per Roma, tenendosi per loro non più che gli avanzi. Ma quest’oro come se lo procuravano? Conquistando nuove terre e saccheggiandole. Espandendosi. L’Impero romano, per sopravvivere, doveva crescere. La crescita prima di tutto dunque, interessante no?

E crescere significava semplicemente appropriarsi con la forza delle risorse di altri popoli, per poter mandare avanti un carrozzone che da solo non si sarebbe mosso di un dito. Era un Impero drogato, dipendente dall'oro e dalle conquiste di nuove terre, dalla sottomissione di nuovi popoli. Ricorda molto da vicino un nostro tipo di dipendenza, quella da petrolio.  Anche oggi ci espandiamo, con guerre manifeste o mascherate, per soddisfare questa nostra assuefazione e mantenere in moto l’economia petrolizzata. Una macchina che senza oro nero non girerebbe più: campi senza frutto e ridotti a deserti, strade vuote, supermercati vuoti, luci e acqua razionate... il collasso della nostra civiltà così come la conosciamo.

Ma prima di parlare di collasso, occorre definire di che cosa si tratta. Nell'articolo si riprende una definizione illuminante data da un antropologo studioso di collassi di civiltà, il dr. Joseph Tainter. Il dr. Tainter definisce il collasso come “la perdita di complessità di un sistema”. Bellissima definizione, chiarissima. Quando una società collassa, vuol dire che è costretta a diventare più semplice. Vista così, non è poi tutto sto ché no? Le società reagiscono agli stimoli esterni, alle crisi, e lo fanno normalmente aumentando la loro complessità, dotandosi di leggi e strutture più dettagliate e comprensive. Lo fanno per mantenersi in equilibrio sopra il baratro. Arriva però un momento in cui questo aumento di complessità non produce più nessun ulteriore beneficio per la società. Anzi, quando lo sforzo per mantenere in piedi la baracca così com’è (senza nemmeno più espandersi) non viene ripagato da un guadagno... allora è quando una società collassa. Semplice ed efficace. Si torna indietro, un bel po’ magari, fino al punto in cui il sistema è in grado di auto-mantenersi e perfino di creare un surplus, per cui conviene ancora alzarsi la mattina e faticare. Altrimenti che lo facciamo a fare?

Bene, per l’Impero romano questo momento giunse quando non poterono più espandersi, o non gli conveniva più. A nord i Germani erano tipi troppo tosti e troppo poveri da combattere per quel poco che potevano offrire. A ovest c’era l’Oceano. A est i Persiani avevano un esercito sconfinato. A sud c’era il deserto. Risultato? Niente più oro e ricchezze facili, la macchina si ferma e ci si rende conto che senza poterla più alimentare per andare avanti, non vale nemmeno più la pena mantenerla in piedi. Collasso. Si semplifica signori.
La cosa affascinante è che la riduzione di complessità a guardarla bene fu molto simile a quella che ci potremmo aspettare oggi, dovesse succedere una cosa del genere: decentralizzazione del potere, i militari che tornano da frontiere lontane per difendere i nuclei abitati, il ri-sincronizzare produzione e consumo di risorse. In altre parole, il medioevo. Con i suoi feudi e le sue città fortificate, con la sua economia cittadina autosufficiente, senza la burocrazia imperiale.

Non che debba succedere anche a noi, ma almeno analizziamo la cosa fuori dai denti: i romani dipendevano dall'oro, noi dal petrolio. Nessuno dei due possiede abbastanza di quel di cui più ha bisogno. Entrambi siamo quindi destinati a crescere ed espanderci per poter sopravvivere. Entrambi ci siamo inventati una bella scusa per sottomettere i poveri barbari: loro esportavano la cultura, noi la democrazia. Entrambi per mantenere il controllo tendiamo ad accentrare il potere aumentando la burocrazia e l’inerzia del sistema. Non basta per farsi delle domande?
Per di più: si potrebbe pensare che cause simili per problemi simili lascino intravvedere soluzioni altrettanto simili. Già oggi in molti, compreso il sottoscritto, sostengono la necessità per la nostra società di tornare alla localizzazione, al decentramento del potere e della gestione diretta della propria sovranità, al consumo legato alla produzione, entrambi locali. All'affievolire quantomeno la dipendenza dalla droga che mantiene in vita la nostra società, prima che finisca per davvero.

Per i romani la soluzione, forse loro malgrado, fu il medioevo. Per noi invece? Il fatto poi che il medioevo sia generalmente considerato come un periodo buio della storia occidentale, a torto o a ragione, non dovrebbe trarci in inganno, ma farci fare un passettino ancora in più. La storia e la fisica seguono semplicemente il loro corso. Forse i sistemi sono inesorabilmente destinati a collassare, arrivati a un certo punto. Forse è inevitabile, è il modo che il mondo ha per mantenersi in equilibrio. Fatto sta che a vederlo in anticipo, al contrario di quanto fecero i romani, magari si potrebbe reagire in qualche modo che renda la transizione verso quella società più semplice un po’ meno traumatica. Si potrebbero evitare cose tipo il sacco di Roma, strade divelte, case in fiamme, razzie, stupri eccetera. Si potrebbe perfino sperare che quella perdita di complessità che ci aspetta si possa ridurre. Magari loro avrebbero potuto salvare qualche antica sapienza, qualche opera d’arte, qualche libro in più.

Non lo sappiamo. Però sappiamo tante altre cose, e varrebbe la pena di pensarci, di farsi domande del tipo: a che punto siamo? A che punto è la nostra società sull'autostrada che l porterà inevitabilmente al collasso? Possiamo almeno frenare prima di schiantarci contro quel muro?
Io, e come me tanti, tantissimi altri, credo di sì. Ma credo anche che per riuscirci c’è bisogno di aprire gli occhi e vederlo, quel muro. E di tenerli sempre bene aperti, mentre iniziamo a pigiare sul quel freno, che è ora.



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Per chi volesse approfondire (tutto il materiale è in inglese):

  • L’articolo di U. Bardi (versione corta, versione estesa)
  • Un altro interessante articolo sul tema: “How civilization falls, a theory of catabolic collapse - J. M. Greer, 2005”
  • Video di una conferenza di J. Tainter “Why societies collapse  (and what it means to us)”, International Conference on Sustainability: Energy, Economy, and Environment, 2010.




domenica 7 ottobre 2012

Cambiare il mondo senza prendere il potere

Certe cose le senti dire talmente tante volte che alla fine arrivi a convincerti che siano vere. Che debbano esserlo per forza. Frasi di tv ripetute migliaia di volte da migliaia di voci autorevoli (o pseudo-tali) diverse. Titoli di giornali. Radio e tiggí. Industriali, accademici e politici. Fiato alle trombe della vane necessitá contingente. Dobbiamo crescere, tirare la cinghia, produrre. E poi ancora, l’Europa ce lo chiede, la fiducia dei mercati, l’occidente sviluppato e i paesi emergenti, il terzo mondo e il sottosviluppo, l’economia di mercato e il protezionismo. Oppure ancora cambiare il modo di fare politica, la legge elettorale, creare posti di lavoro.

Stronzate. Frasi prive di senso ripetute anche (e sopratutto) fuori dal loro contesto, astratte e inconsistenti diventano familiari e rassicuranti, prescindendo da ogni significato. Che lo sappiano o meno, perché non é scontato che se ne rendano conto, tutti questi signori parlano per niente. Parlano di niente. Quello che fanno é asservire come docili agnellini un disegno che va oltre il tempo e lo spazio. Un disegno che parrebbe tracciato machiavellicamente da persone molto piú colte e potenti, i famosi poteri occulti. In mancanza di prove della loro esistenza, mi pare tuttavia lecito pensare che siano il frutto di una sorta di intelligenza colletiva degenerativa, emersa dall’evoluzione di una societá basata per decenni e sempre piú su paradigmi speculativi tipici dell’economia di mercato. L’idea che la sussistenza sia da poveri, che non sia in grado di garantire una sufficiente qualitá della vita. Qualitá della vita peraltro sempre piú misurata in termini materiali, basata sulla possessione di cose innecessarie ad una reale qualitá della vita, finti bisogni creati ad arte che siamo disposti a lavorare 24 ore al giorno o a indebitarci a vita per poterci garantire. Anni di doping consumistico e di capitalismo sregolato che ci hanno inconsciamente costretto ad una vita, a ben guardarla, miserabile. Ci preoccupiamo piú del domani che dell’oggi. L’idea che il surplus sia talmente importante da immolare sull’altare di un futuro benessere l’ora e il qui. La felicitá é costantemente posticipata, volutamente peraltro.

Adbichiamo quotidianamente al diritto ad una vita degna e di qualitá (per noi stessi, senza andare a parare in paesi o situazioni lontane) sull’altare di falsi miti creati ad arte. Siamo costantemente immersi nostro malgrado, e spesso a nostra insaputa, in una comunicazione di massa mirata ad una redistribuzione delle risorse (e della ricchezza) dal pubblico al privato, privato sempre piú concentrato nelle mani di pochi non-eletti.


LA CENTRALIZZAZIONE DEL POTERE

Al potere si pensa ormai necessariamente come a qualcosa di centralizzato. Qualcosa che risiede in una sede, nelle mani di qualcuno, o comunque di pochi, ma mai nostre. Chiedetevi il perché. Politica, economia, energia e risorse, perfino il sistema alimentare. Fanno tutti capo a un qualcuno, una elite, che ha le chiavi in mano e che per quanto ci riguarda potrebbe anche decidere di chiudere baracca e burattini quando le pare. Puó decidere per tutti, é l’assenza di democrazia ad ogni livello della nostra vita. Abbiamo perso la stessa concezione di decidere per noi stessi, di assicurarci in prima persona il nostro benessere, cosí come pensiamo sia piú giusto. Siamo in ogni aspetto della nostra vita in balia di cose che non controlliamo.  Non siamo padroni di noi stessi.

In politica deleghiamo il nostro potere decisionale, ci hanno fatto credere che sia una buona cosa e oggi come oggi accettiamo a tal punto da non riuscire nemmeno ad immaginare sistemi alternativi. La soluzione, di fronte alla corruzione dilagante della classe politica, é semplicemente quella di cambiare le facce, di mischiare un po’ le carte. Non si guarda nemmeno alla causa, un sistema percui il potere viene concentrato nelle mani di pochi, ma all’effetto: i nomi di quei pochi.

Parlando di economia, nessuno ci capisce niente ormai, e si ripetono a vanvera concetti che si sentono dire. Discorsi per gli addetti ai lavori e i professori. E questo, chi ha in mano le redini dei mercati finanziari, lo sa bene e sa di poter agire incontrastato. Sono loro il vero motore dell’economia oggigiorno, svincolato totalmente dall’economia reale, quella che sarebbe funzionale alla qualitá della vita delle persone. E gli va bene cosí, gli va bene che si creino ad arte discussioni fasulle. Crea l’austeritá e ti pregheranno per crescere. E crescita, lo sappiamo, significa soldi a palate per questa gente. Significa depredazione di diritti e risorse, significa avvelenamento e violazione, significa alienazione consumistica per il resto delle persone di questo pianeta.

L’energia é prodotta in impianti enormi che soddisfano i bisogni di tutta la popolazione. In alcuni casi (vedi impianti nucleari) devono essere persino protetti dall’esercito. Lo stato decide per tutti anche qui. Se qualcosa cambiasse, se qualcuno assumesse il controllo di questi impianti, potrebbe mettere in ginocchio un'intera nazione nel giro di qualche ora. Le rinnovabili sono osteggiate anche per questo, permetterebbero uno svincolamento da questa dipendenza, la delocalizzazione della produzione elettrica che darebbe il via a un sentimento di maggior autosufficienza. E per questo persino laddove si affermano, sono perlopiú in mano dei privati, non della gente. Sono rari i casi in cui siano le stesse comunitá a gestire impianti fotovoltaici o eolici. Specie per i secondi, sono sempre piú posseduti da privati. A pensarci bene, é la privatizzazione del vento come risorsa. Ma nessuno ci pensa bene a queste cose.

L’intera popolazione mondiale potrebbe autoalimentarsi se ognuno coltivasse per sé un piccolo orto. Senza grande bisogno di manodopera, attraverso tecniche tradizionali rispettose della natura, della sua stagionalitá, della sua diversitá. Ri-adattando il nostro stile alimentare a quello che la natura ci offre, non a quello che pretendiamo. Ci sarebbe molta meno incidenza sulla produzione alimentare di fattori negativi come l’oscillazione dei prezzi del petrolio (per fertilizzanti, pesticidi, macchine da lavoro e trasporti) rispetto alla grande distribuzione basata sulle monoculture. L’apparente abbondanza di oggi, figlia della grande distribuzione, é in realtá convertita in sprechi da una parte e in impossibilitá di accesso dall’altra.


RADICAMENTO DELL’IMPOSSIBILITÁ DEL CAMBIAMENTO

Attraverso questo continuo lavaggio del cervello, attraverso la progressiva e costante centralizzazione del potere, attraverso la denigrazione di un passato piú sostenibile del presente, o degli stili di vita di quelle comunitá che tuttora lo sono. É cosí che passa l’idea che siamo condannati a continuare a percorrere questa strada. L’impossibilitá del cambiamento é figlia della radicazione nei nostri cuori e nelle nostre menti di stili di vita fasulli, scollegati dalla natura e incontrollabili da parte nostra. Che ci rendono dipendenti da qualcosa che non vediamo, pedine di un gioco che non conosciamo. Fragili e insicuri. Meglio un male che conosciamo (o perlomeno crediamo di conoscere) che un presunto bene lontano e sconosciuto.



Signore e signori, l’impossibilitá del cambiamento é una balla. Ma non dobbiamo aspettarci che nessuno ce lo regali, quello no. Non dobbiamo nemmeno sperare di arrivare al potere per poter cambiare le cose, sarebbe impossibile stando alle regole del gioco che stiamo giocando. Il cambiamento parte dalle cose trascurate e inutili. O meglio, quelle che ci passano come tali. Passa dal vedere che in realtá non abbiamo bisogno di quello che ci dicono, ma di altro. Dal capire che possiamo avere una vita davvero migliore, e che ce la meritiamo. Tutti. E iniziando a perseguirla, nel nostro quotidiano e nel nostro piccolo. Cambiando noi stessi e le nostre aspirazioni, il nostro stile di vita. E condividendo la nostra esperienza con chiunque. Per farlo poi, un giorno, diventare normale. Non é cosí difficile come sembra, c’é un mondo lá fuori che ha giá iniziato a farlo. Il fatto che non ne abbiate sentito parlare, beh quella é tutta un’altra storia.






venerdì 5 ottobre 2012

Sólo sé lo que no sé


Ho 28 anni ed ho sempre avuto una tensione bipolare nella mia vita. Verso la scienza da un lato e, dall’altro, verso tutto quello che scienza non é.  Chiunque guardando alla mia vita direbbe che la prima ha vinto. Appena ho potuto scegliere ho deciso di fare il liceo scientifico, l’universitá, sono diventato ingegnere e poi ricercatore. Oggi porto avanti la mia piccola parte di scienza quotidiana, cercando di non scivolare dalle spalle dei giganti sulle quali mi trovo spesso a bivaccare. La seconda pulsione é rimasta invece perlopiú latente. Limitata piú o meno consapevolmente ai momenti di libertá. Oggi capisco che in realtá questa distinzione non esiste. Forse non é mai esistita, veramente. Un bel sospiro di sollievo.


LA SCIENZA

Da sempre la scienza mi ha affascinato in quanto ti permette di conoscere il mondo. Ti avvicina al perché e al per come delle cose. E non c’é margine: é precisa, univoca, ripetibile. É sicura, solida. Se ti ci addentri sul serio poi, ti puó perfino dare l’idea di riuscirle a controllarle le cose, quasi a predire come andranno a finire. É una specie di magia. Ma bisogna studiare duro per poterla controllare. Richiede anni e anni di sacrificio, direi quasi il compromesso di non smettere mai. Non é affatto facile arrivare a quei livelli, ma sono sempre stato profondamente affascinato da chi mi dava l’impressione di averlo raggiunto. Cosí ho sperato di poterlo fare anche io. Ho sempre considerato la scienza, prima ancora delle arti, come l’espressione piú nobile dell’essere umano e delle potenzialitá della sua mente, ció che ci contraddistingue. Lo stesso si potrebbe dire per le arti, certamente. Ma se mi aveste chiesto fino a poco tempo fa, non avrei avuto il minimo dubbio. Il sapere nobilita l’uomo, lo rafforza. É nel nostro destino quello di conoscere il mondo, per poterlo capire e adattarci ad esso per vivere meglio.

Il progresso. La scienza é la premessa necessaria e non sufficiente per il progresso. Non sufficiente perché non basta, dev’essere guidata da qualcos’altro... E qui entra in gioco quel qualcosa di latente. Chiamiamola filosofia. Chiamiamola spiritualitá. Chiamiamola arte. Chiamiamola sensazioni, emozioni, passioni. Chiamiamola etica, morale. Chiamiamola come volete, ma siate consapevoli che c’é. Che ci deve essere.
Recentemente ho avuto la fortuna di deviare dai binari del razionalismo per farmi un viaggio attraverso lande per me quasi desolate. Quelle che ti portano a pensare che, per quanto possiamo sapere, per quanto possiamo sforzarci... non sapremo mai niente. É stato davvero un viaggio rivelatore. La scienza dunque... che cos’é davvero la scienza?


L’ILLUSIONE DEL SAPERE

La scienza é l’illusione di sapere. Il mondo é talmente complesso, talmente vasto e misterioso che qualsiasi persona che si reputi razionale per davvero non puó che assentire sul fatto che non arriveremo mai a conoscerlo sul serio. Il controllo poi, quella piú che un’idea é un illusione. Un ulteriore passo verso la follia, é che questa nostra presunzione ci inviti addirittura a voler plasmare il mondo stesso secondo i nostri bisogni.

Piú mi immergo nella scienza e piú mi rendo conto di quello che non sappiamo. Ogni conclusione si appoggia su assiomi, ipotesi piú o meno verificate, interpretazioni soggettive di questo e di quello, quantificazioni di proprietá non misurabili. Ogni modello riflette in sé la nostra visione del mondo. L’importanza relativa che diamo alle cose. Uno scienziato serio questo lo sa. E non puó fare finta di niente. Che poi, per certe applicazioni, le approssimazioni della realtá cosí come la conosciamo attraverso quegli strumenti di cui noi stessi ci siamo dotati siano funzionali ai nostri bisogni... beh, quella é una gran bella cosa. Ma sono grato di aver compreso, grazie alle parole di persone illuminanti che avevano giá percorso questa stessa strada prima di me, che accanto alla soddisfazione di una previsione azzeccata ci deve sempre essere la consapevolezza della nostra nullitá di fronte allo sterminato e impenetrabile mondo che risiede al di fuori della nostra mente.


SCIENZA O COSCIENZA?

Arrivato a questo punto, la bilancia torna a pendere in misura uguale da entrambe le parti. Non é piatta, ma cambia continuamente di lato, in uno stato di equilibrio dinamico. La scienza, intesa come abilitá di usare la nostra razionalitá, é in equilibrio con la coscienza della nostra inadeguatezza a comprendere per davvero il mondo. Si alterna costantemente con la sempre piú profonda convinzione che la realtá in quanto tale ci é imperscrutabile. Che tutto quello che possiamo fare é darne un’interpretazione, che sappiamo essere soggettiva e, pertanto, necessariamente incompleta. E che occorre viverci in pace. Accettarla. Accettare di non sapere, per mantenere l’umiltá di imparare quel che si puó. Ma senza nemmeno darsi troppa importanza, perché quello che impari oggi puó non valere piú domani. E questo non solo perché sia la realtá fisica a cambiare. Noi cambiamo costantemente e con noi la nostra capacitá di interpretare e di leggere il mondo.

Per quanto grandioso, per quanto emergente in  dimensione collettiva o storica, il nostro intelletto e la conoscenza che ne deriva é pur sempre limitato. E questa limitatezza ci pone costantemente di fronte ad una scelta: é meglio conoscere in profonditá un aspetto specifico della realtá, oppure averne una visione piú globale, seppur generale? Oggi tendiamo ad avere un approccio riduzionistico, che riduce la realtá alla descrizione dettagliata delle sue parti. Ma come si puó pretendere di conoscere qualsiasi cosa, per circoscritta che sia, se si ignorano o addirittura si trascurano volutamente i legami che questa mantiene con tutte le altre componenti che con essa interagiscono costantemente e in maniera complessa? La risposta é semplice, non si puó. Cosí come non ci sarebbe possibile abbracciare la realtá nel suo complesso in un unico sguardo.




E allora? E allora niente. Tutto qui. Siamo coscienti che non solo di scienza e di razionalitá si nutre lo spirito umano. Siamo consapevoli che i problemi non si risolvono solo grazie a numeri che decidiamo noi. Che ci sono altre forze in gioco e che, spesso, sono perfino piú potenti. Che la tecnologia, riflesso applicato della scienza, non é – da sola – la soluzione a niente. Che una buona dose di autocritica fa sempre bene. Che dobbiamo mantenere l’umiltá che ci viene richiesta dalla nostra condizione di limitatezza. Che se una guida dobbiamo proprio avere, allora dovrebbe essere qualcosa di piú saggio, di piú grande e di meno limitato di noi. Nel tempo, nello spazio e in ogni altra dimensione.

La nostra guida, quella vera, sia allora la natura. Quella che vive attorno a noi. Assieme a noi eppur indipendentemente da noi. Quella che si sviluppa costantemente e da miliardi di anni, secondo leggi che ci sfuggono nella loro complessitá. Osserviamola, cerchiamo di capirla... ma sentiamola anche, rispettiamola, impariamo da essa. E accettiamola, per accettare noi stessi e tornare alla nostra vera dimensione: l’essere umano. Parte auto-cosciente di Gaia.