giovedì 22 dicembre 2011

Pensa globalmente, agisci localmente


In quanto solo uno dei 7 miliardi di componenti delle quasi 9 milioni di specie censite sul pianeta, ognuno di noi deve necessariamente sentirsi una piccola parte di un qualcosa di piú grande, di molto piú grande.
Giá, ma comunque una parte di esso. E una parte importante.

Parlando di specie, credo sia difficile trovarne un’altra che abbia un impatto maggiore sul pianeta in cui viviamo della nostra. Dobbiamo quindi essere responsabili e coscienziosi delle nostri azioni. Avere cioé coscienza del fatto che abbiamo sulle spalle il futuro non solo mio, tuo, nostro, ma di qualcosa di meraviglioso e infinitamente piú complesso di quanto potremo mai capire o comprendere: l’intero pianeta Terra. Per quanto ne sappiamo, non esiste nient’altro di simile in tutto l’Universo. Eppure possiamo distruggerlo. Anzi, svariate prove ci dicono che purtroppo stiamo giá andando in questa direzione.
Dobbiamo pensare globalmente quindi. Significa renderci conto dell’impatto che abbiamo e coportarci di conseguenza. Non fare finta di niente né essere egoisti. Sentirsi responsabili delle proprie azioni e assumersi le proprie responsabilitá. Sia in senso spaziale, su quello che per quanto lontano ci sta attorno (per quanto lontano), sia in senso temporale. Ossia per il futuro del pianeta. Garantire a quelli che non ci sono ancora, ma che verranno, le stesse possibilitá che abbiamo avuto noi. Il concetto di sviluppo sostenibile nasce proprio qui, cosí come definito nel 1987 e sancito ufficialmente come principio internazionalmente condiviso sin dalla prima conferenza sul cambio climatico  a Rio nel 1992:

uno sviluppo che soddisfa i bisogni delle generazioni attuali 
senza compromettere la possibilitá delle generazioni future di fare altrettanto

Pensare globalmente implica necessariamente avere in mente una visione instesa sí come planetaria, ma anche come del tutto generale, olistica, che non trascuri nessun aspetto. Che cerca di considerare il complesso sistema di interazioni causa-effeto che caratterizzano il sistema in cui viviamo. Che cerca di prevedere, se necessario controllare, anche quel piccolo battito d’ali di farfalla che sembra insignificante. Cercare in definitiva di usare le doti migliori di cui natura ci ha dotato, la logica e la ragione, la creativitá e l’ingegno, per non farsi prendere alla sprovvista dagli effetti delle nostre azioni.

Ma perché é importante agire localmente? Perché ognuno di noi conosce meglio quello che ha attorno. Perché é da lí che bisogna cominciare. Dando l’esempio in prima persona. Lá dove l’azione e il suo effetto diventano immediatamente tangibili, il buon esempio diventa contagioso. Perché diventare i primi nodi di una rete che si espande attorno a noi. Col nostro buon esempio stimoliamo chi ci sta attorno, chi meglio ci conosce, a fare altrettanto. E quando questi faranno lo stesso una nuova rete si creerá attorno a loro, fino a che le piccole reti diventeranno talmente tante, o talmente grandi, da unirsi tra loro. L’impatto locale delle nostre azioni puó arrivare as avere cosí conseguenze globali.
Prima ancora che da chi ci sta intorno, occorre peró partire da ancora piú vicino: da dentro. Il mondo si cambia partendo da sé stessi. Per questo, ognuno di noi puó cambiare il mondo.

Agire localmente quindi, nel posto dove e nel momento in cui viviamo. Qui e ora. Dove é piú immediato vedere gli effetti di quello che facciamo. Positivi o negativi. Agire localmente per migliorare prima di tutto l’intorno in cui viviamo. Il nostro mondo. Per vivere meglio. E se abbiamo successo il Mondo, quello grosso, ci seguirá.

Avendo questo ben chiaro in mente, navigando su internet ultimamente mi capita di imbattermi ogni giorni in progetti, iniziative, comunitá, movimenti che condividono lo sforzo per arrivare ad una societá piú giusta, piú sostenibile. In cui é piú facile vivere. E piú bello, anche. In cui tanti dei problemi della nostra societá scompaiono, essendo prodotti collaterali di cause ben piú profonde che questi progetti cercano di risolvere alla base. Ognuno a modo suo, occupandosi di qualche aspetto specifico. Sono una grande fonte di ispirazione. Per quanto diversi, tutti guardano nella stessa direzione. E ti fanno sentire che non sei solo, che il pazzo, dopotutto, forse non sei tu.

Ne ho raggruppati alcuni nella barra qui a fianco. Voglio farlo per diffonderne la conoscenza a chi sia interessato, ma anche per dimostrare a tutti che esiste già una vera e propria rete di persone, o molte reti di persone, che cerca sul serio di cambiare le fondamenta della societá per arrivare ad un mondo migliore. Tutti affrontano il problema sotto una diversa prospettiva. Possono quindi risultare piú o meno interessanti a seconda dei propri interessi e aspirazioni.
I concetti sono quelli di salvaguardia dell’ambiente e del territorio, lotta al cambio climatico, riduzione dell’impatto umano, ecologia, resilienza, importanza della cultura e dell’educazione, qualità contro qualità, grandiositá dell’ingegno e della creativitá umana, nuove possibilità offerte dallo sviluppo scientifico-tecnologico, recupero dell’appartenenza a una realtá locale e della saggezza secolare delle generazioni passate, giustizia ed equitá sociale, economia stazionaria basata sulle risorse e non sul denaro, lavoro socialmente utile.
Tutti individuano problemi e cercano di risolverli, proponendo un’alternativa percorribile. In alcuni casi avendo riscosso giá i primi frutti del proprio lavoro. Prego chiunque abbia altri esempi di questo tipo di indicarli qui in modo da poterli introdurre nella lista. Si tratta di una lista che ispira e da speranza. Che incita alla consapevolezza e all’azione. Una lista per il futuro.

A te che stai leggendo: se pensi che ci siano cose che non funzionanno in questo mondo non ti abbattere, non sei il solo. Ma non basta non abbattersi. Si possono avere diversi approcci al problema:

  1. Ignorarlo e continuare come se nulla fosse
  2. Catastrofismo: tutto è perduto
  3. Prendersi le proprie responsabilitá e iniziare a lavorare per migliorare le cose


Se senti di appartenere alla terza categoria questo blog é il posto per te. Ognuno di questi link é un posto per te. Prendi in pugno il tuo futuro e agisci. Localmente. Apporta il tuo contributo, in maniera positiva, fai quello che meglio ti si da, quello che puoi, quello che credi. Ma mentre lo fai, pensa globalmente. Abbi chiara la visione del problema nel suo insieme. Capisci quel’é la causa di fondo e trova un modo per attaccarla alle radici, ma ora e qui. Lá dove vivi e con quello che puoi fare. Ognuno alla sua maniera.
Abbi fiducia in quello che fai. Se lo farai bene e con convinzione altri ti seguiranno. E allora avrai un impatto visibile nel risolvere i problemi che ti preoccupano.



PENSA globalmente, AGISCI localmente.



Buon Natale.







sabato 17 dicembre 2011

Il senso del lavoro, oggi


Oggi partiamo dalla fine. Il lavoro oggi come oggi altro non è che uno strumento di controllo di massa e di denigrazione della dignità umana.

L’essere uomini ci spinge ad avere delle necessitá. Necessità che per forza di cose dobbiamo soddisfare per poter vivere. Nutrirci in maniera soddisfacente, sia per il gusto che per le necessitá nutrizionali. Energia, per poterci riscaldare in inverno, rinfrescarci in estate, darci luce di notte e mille altre funzioni che oggigiorno ci permettono di vivere una vita dignitosa. Una casa, sede della nostra vita familiare e riparo dal freddo e dalle intemperie atmosferiche. Calore umano, quello che la famiglia, gli amici e le persone che ti vogliono bene riescono a darti. Cultura, il prodotto della nostra naturale inclinazione all’esplorare il mondo, a conoscerlo e a tramandare le nostre scoperte per il bene comune. Intrattenimento, per poterci rilassare, divertire e svagare. E lavoro, per sentirci realizzati in quello che facciamo e sentire di stare contribuendo al bene della comunità di cui facciamo parte.

Distorsione

Le dinamiche della societá moderna ci impongono invece di lavorare per poter soddisfare tutti i suddetti bisogni primari. Si tratta di un sistema, niente più, niente meno. Puó essere giusto o sbagliato. Molto probabilmente è stato giusto, ma ora è incredibilmente sbagliato. Obsoleto, è la parola giusta in questi casi.

Dunque l’ipotesi di fondo di questa nostra società è che ognuno deve lavorare per poter guadagnare dei soldi e in questo modo riuscire a soddisfare le proprie necessità. Sin dal formulare l’ipotesi passano del tutto inosservate alcune cose.

UNO. Il lavoro diventa obbligo. Diventando obbligo perde completamente il suo significato originale di realizzazione dell’uomo in quanto contributo alla comunità. Diventa infatti contributo a sé stessi, necessario per la propria sopravvivenza. Il lavoro è ormai per gli uomini quello che gli artigli sono per i leoni: strumento di selezione naturale.

DUE. Il lavoro è condizione necessaria, ma non sufficiente, per la soddisfazione delle necessità unversali dell’uomo. Se non lavori non potrai aspirare quella vita di essere umano che il XX secolo richiede. O se non lavori abbastanza. O abbastanza bene. O se non fai il lavoro adeguato. Forse potrai in parte, forse non potrai affatto.

TRE. Consideriamo legittimo tutto questo. Prendiamo per normale che ci sia gente che muore di fame solo perché non lavora. O che non può permettersi l’università. O che dorme per strada tra i cartoni. Non si tratta di inno alla pigrizia o all’indolenza. Si tratta di diritti umani. Si tratta, anche qui, di giustizia. È questione di chi non riesce vivere in questo sistema, non di chi non ci prova. Di vivere dignitosamente, che non è sopravvivere.

Ne deriva il fatto che siamo del tutto dipendenti dal lavoro. Il lavoro ha perso i suoi attributi positivi per diventare una condanna. Un incubo. Pochi eletti e privilegiati possono dire di fare qualcosa che li realizza nella loro vita. Per lo piú “si tira avanti” facendo qualsiasi cosa ci permetta di campare. Dimenticandosi del fatto che il progresso tecnologico e umano avuto sin qui ci impone di ripensare radicalmente il concetto di lavoro oggi.
Vi pare possibile che quando si conosce qualcuno per la prima volta, dopo il nome e prima del cognome, la prima domanda sia “cosa fai nella vita?” Come se ci fosse una risposta. Come se si potesse fare solo una cosa nella vita. Come se si potesse essere solo una persona nella vita. Il fatto é che non siamo più persone, ma organismi lavoranti. Siamo quello che lavoriamo. Ingranaggi della società.
Come già discusso la nostra società è condannata ad una insana crescita perpetua. Come ingranaggi di questa società siamo portati, siamo chiamati direi, ad essere protagonisti di questo scempio. A comprare compulsivamente e senza alcuna necessità. A dimenticare il vero significato del fatto che siamo al mondo. A non farci più domande, ma a vivere facile e consumare. Semplicemente. A spendere il nostro tempo su questo mondo nella maniera più indolore possibile. A vivere le nostre piccole vite cercando di non dare troppo nell’occhio. Patetico è il nuovo cool. Comprare comprare comprare.
Siamo schiavi del denaro che possediamo. È solo quello che ci permette di fare quello che vogliamo. Solo quello che ci permette di essere chi vogliamo. La conseguenza è evidente: siamo schiavi del nostro lavoro. Senza lavoro ci sentiamo non solo incapaci di fare qualsiasi cosa, ma inetti, perdiamo ogni senso.
La cosa forsa più grave è infatti che ci sentiamo legittimati a giustificare questo senso di inutilità, senza ribellarci all’idea che non sei il tuo lavoro, ma sei sempre e comunque una persona. Con delle aspirazioni, delle capacità, delle speranze e anche dei vizi. Con delle possibilità e delle responsabilità. Invece no, se non lavori sei un non-uomo. Smetti di essere ingranaggio e quindi tutto attorno a te ti spinge a non considerarti degno di questa società. Completamente inutile. Lo scopo della tua vita sarà quello di trovare un lavoro. Ben prima che per soddisfare i tuoi bisogni, per soperire a quel senso di vergogna. Ci si autoingranaggia. È forse lo strumento di controllo di massa meglio nascosto e meglio riuscito a disposizione del sistema per la sua perpetuazione.

Automazione

C’é un altro fatto interessante qui, attuale ora più che mai. La disoccupazione, le sue cause e le sue conseguenze. Sono abbastanza sicuro che nella top 10 delle parole più usate al mondo nel 2011, e in qualsiasi lingua, ci sia la parola crisi. Lo spauracchio della crisi – più che la manifesta follia umanicida di un sistema perverso, lo scempio ambientale che esso comporta, l’ingiustizia perpetrata ad ogni livello e senza battere ciglio – è la disoccupazione. Tanta gente sta perdendo il proprio lavoro, e questo è una vera tragedia. Non c’é ironia nel dirlo, non oso immaginarmi il dramma interiore. Forse tra poco sarò nella stessa situazione, spero di no ma non lo posso escludere a priori. È qualcosa che non si augura a nessuno.
Ciò nonostante, credo che sia necessario rimettere le cose al loro posto, nella gerarchia delle cose importanti.
Spesso si sottovaluta il fatto la disoccupazione sia dovuta non tanto alla crisi, quanto alla congiuntura di una sana economia (una volta tanto) e del progresso scientifico-tecnologico. L’automazione ha reso possibile cose impensabili fino a poco tempo fa. Le macchine fanno lavori umilianti per gli uomini, lavorano 24h al giorno senza lamentarsi e senza vacanze. Lavorano senza stancarsi e in maniera molto più precisa ed affidabile di qualsiasi essere umano. Si chiama efficienza, e va di pari passo con l’economia. Ignorare le possibilità che derivano da tutto questo sarebbe del tutto privo di senso. Eppure tante persone si trovano senza lavoro proprio a causa di ciò. E qui, attenzione, non parliamo di lavoratori immigranti costretti a lavori umilianti che gli autoctoni non vogliono piú fare; qui non parliamo di esportare la produzione per abbassare i costi di manodopera facendo finta di non vedere le pessime condizioni di lavoro e i diritti umani calpestati. Qui parliamo di vera evoluzione del lavoro. Qui parliamo di persone che non sono piu costrette a fare lavori stancanti, pericolosi o denigranti perché il progresso ha permesso che quegli stessi lavori venissero svolti più efficientemente, più economicamente da macchine costruite, programmate e controllate dall’uomo. Qui, signori, si assiste al trionfo dell’uomo. Trionfo che si tramuta, però, in tragedia. Tragedia della disoccupazione.
Si tratta di un processo che non solo non si deve, ma non si può fermare. Qualsiasi impresa, perseguendo la chimera della massimizzazione del profitto, non potrà mai rinunciare all’automatizzazione, che continuerà ad aumentare. Non è matrix; non è la Cina. È il semplice progresso. E viene a beneficio dell’uomo.

Ripensiamo il lavoro

Allora vale la pena ripensare, riformulare il concetto di lavoro in sè. Occorre dissociare il lavoro dalle necessità umane, quelle che ci consentono doverosamente, nel XX secolo, di vivere una vita dignitosa. Il lavoro deve tornare alla sua funzione originale: quella che gli conferiva il ruolo di realizzare l’uomo nello spirito e nel corpo. Quello di rendere degno l’uomo secondo le sue proprie aspirazioni, non di togliergli la dignità.
Il lavoro dev’essere, in altre parole, volontario. Non deve supponere alcuna ricompensa, perchè solo così può essere puro. Solo così ognuno può dedicarsi a ciò che più gli piace, a ciò che meglio gli riesce, al campo in cui può realmente contribuire apportando miglioramenti importanti. E per pura passione. La passione deve tornare ad essere quello che ci muove, non il bisogno.
Perchè ciò sia possibile, dobbiamo fare sì che tutte le necessità di tutte le persone della Terra vengano soddisfatte a prescindere. Indipendentemente da qualsiasi cosa vi venga in mente. A tutti secondo il loro bisogno. Non è un comunismo mascherato. La dicotomia tra capitalismo e comunismo non ha piú senso oggi. Le cose cambiano, il mondo cambia. Se dei concetti potevano aver senso decenni fa, la rapida evoluzione delle cose rende certe definizioni, e le relative contrapposizioni, semplicemente obsolete. La rivoluzione delle telecomunicazioni, della robotica, dell’automazione, le nanotecnologie, sono tutte cose sconosciute appena qualche decennio fa. Vale la pena provare a vedere se con lo stato attuale delle conoscenze tecnologiche sarebbe possibile soddisfare il bisogno di cibo, energia, casa e beni di prima necessitá per TUTTE le persone. E perchè no, anche i beni di seconda e terza necessità. Nel momento in cui questo sia possibile, DEVE essere fatto. DEVE anche essere fattibile.
Liberi dalla schiavitú del lavoro, ognuno sarebbe libero di contribuire al bene dell’umanità senza altra ricompensa che non sia il fatto stesso di star contribuendo al bene dell’umanità. Ognuno nel suo piccolo, ognuno con quello che gli riesce meglio, ognuno con la sua passione e i suoi mezzi.

Per chi se ne è accorto, le cose stanno già iniziando a funzionare così. Sempre di più. Guardate in informatica, guardate gli open source. Non essendo un esperto, ve ne cito solo alcuni: linux, wikipedia, i social network ect. Rivoluzioni vere e proprie. Tutti nascono dal tempo che persone, professioniste o no nei loro campi, dedicano  gratis  al progetto in cui credono. Senza altro beneficio che il fatto di vederlo realizzato. Tutto questo oggi, ora. Nella società che si regge sul denaro, il profitto e il lavoro per mangiare. Immaginate quello che sarebbe possibile. L’era della competizione non esiste più. Oggi è l’era della cooperazione.

Superiamo la visione standard delle cose. Torniamo a chiederci quale sia il senso della vita. Torniamo a farci domande senza risposta. Interroghiamoci sul perché camminiamo su questo mondo, non diamolo per scontato. Non viviamo alla leggera. 




venerdì 9 dicembre 2011

Il mito della crescita


È ora di iniziare ad andare a fondo sulle questioni che contano.

Parliamo di crescita. Parliamo del mito della crescita.

Prima di tutto vi consiglio di vedere questo video, se non l’avete ancora fatto.


Introduce molto bene cose che qui vorrei riprendere. Vorrei cercare di farlo nella maniera più logica e semplice possibile. Senza usare nessun concetto astruso con lo scopo di invogliare a prendere le cose per oro colato. Non serve, qui vorrei che ognuno riflettesse con la propria testa. Poi vedremo se quello che si dice avrà senso o no.

La premessa è che come specie umana viviamo su un pianeta che, per grande che sia, è pur sempre limitato. E limitate sono la stragrande maggioranza delle risorse che esso ci può offrire. Quelle che usiamo di più, le fondamenta del nostro sistema di vita. Altre, che paradossalmente usiamo molto meno, sono invece rinnovabili.
Il mantra delle risorse rinnovabili andrebbe visto in prospettiva. La rinnovabilità é, come moltissime altre cose, un concetto del tutto relativo. Non un attributo in sé. Va infatti definito in base al ritmo con cui quelle risorse si producono e si consumano. Se le consumiamo ad un ritmo piú lento di quello cui si producono, le risorse sono rinnovabili. Altrimenti no. Tutto qui. Se usassimo il petrolio solo per lavarci i denti, forse potremmo considerarlo una risorsa rinnovabile. Purtroppo, peró, dal petrolio dipendono non solo i combustibili per i trasporti, ma anche tutti i processi industriali, l’industria farmaceutica, l’industria petrolchimica (appunto), i pesticidi e l’industria delle materie plastiche. E state pur certi che me ne sto dimenticando qualcuna. In pratica tutto quello che ogni giorno vi passa tra le mani, o tutto quello che fate ogni giorno, dipende – in piú di un senso – dal petrolio.  Il vero perno dell’economia e della vita moderna. Petrolio che tarda milioni di anni in prodursi. A vederla così non sorprende più di tanto che la necessità di petrolio muova guerre e determini tutti gli scenari strategici geopolitici come su un tavolo di risiko.

Dunque viviamo su un pianeta limitato, di risorse limitate, che in ogni caso un giorno finiranno. Lasciamo ora perdere il fatto che, già prima che finiscano, il solo fatto che siano scarse, limitate, genera tensioni e soprusi da parte di chi vuole, o puó, accapparrarsele per sé. Per il proprio bene privato. Facciamo finta di niente. Chiediamoci qui solamente quale, in uno scenario di limitatezza come quello che viviamo (ma del quale non sembriamo affatto accorgerci) potrebbe essere una strategia sensata per gestire al meglio la situazione.

Una crescita sfrenata e a tutti i costi? Da un punto di vista di pura logica, direi proprio di no. Ma da dove nasce allora questa dipendenza, questo affanno da crescita?

La nostra pseudo-economia é completamente scollegata dal mondo fisico in cui, tuttavia, continuiamo a vivere. Non si rapporta in alcun modo alla quantità di risorse disponibili per le attività che facciamo, venendo meno al suo ruolo primario di economia stessa: la loro gestione strategica. Il tutto é stato soppiantato dal concetto di denaro, concetto artificiale e non naturale. Inventato dall’uomo. Una volta poteva aver senso come concetto, ma ci si è andati gradualmente dimenticando del perchè è stato introdotto...ed è successo che il mezzo è diventato il fine. Quello che ci viene continuamente dato in pasto per farcelo accettare, è la chimera del progresso. Il progresso? Un concetto nobile che è stato distorto, tant’é che non si sa nemmeno piú di cosa si parla. Il progresso rappresenta quel processo che porta al miglioramento della condizione umana. Il progresso così come si intende oggi equivale invece puramente alla necessità di aumentare la produzione di beni e servizi, alla quale si suppone sia collegato il miglioramento della qualità della vita. L’idea che ci vendono e che all’aumentare le possibilità di scelta aumenta la qualità della vita. All’aumentare la quantità di cose che possiedi o di servizi di cui puoi usufruire, migliorerà la qualità della tua vita. Falso. Pensate solo a cosa significa avere troppe scelte nel quotidiano. Pensate quanto tempo sprecato per fare scelte futili su questioni completamente irrilevanti. Quanto tempo sottratto a questioni che importanti lo sono davvero. L’eccessiva possibilità di scelta ci porta in realtà alla paralisi: possiamo tutto ma facciamo niente. E pensate alla mole di oggetti che quotidianamente, e soprattutto in questi giorni di tranche pre-natalizia, siamo spinti a comprare. Tante volte, troppe, si tratta di cose che non ci servono, che nemmeno vogliamo. Pazzia consumistica. In ogni caso, ad ogni acquisto inutile o no, contribuiamo al deperimento delle risorse, allo spreco di energia, all’inquinamento, all’aumento dei rifiuti e, collateralmente, molto probabilmente allo sfruttamento immorale del lavoro di qualcuno e al peggioramento della sua qualità di vita. E all’arricchimento indebito di qualcun’altro. Ooops.

Ma perchè l’economia deve crescere? Qual é il vero bisogno? Chi l’ha deciso, da dove nasce quest’idea? È un prodotto dell’attuale sistema monetario. Un prodotto di qualcosa deciso dall’uomo. In questo sistema entità private producono denaro prestandolo con un interesse agli stati e, quindi, creando debito. Un debito che non puó esser ripagato perché non esistono in circolo i soldi per pagare gli interessi, a meno che le stesse entità private ne producano ancora. E con esso, va da sé, ulteriori interessi da pagare. Non é molto diversa da una forma di usura.

Tu produci 10 e me li presti chiedendomi 11. “Dove te lo vado a prendere quell’1 extra,scusa?” “Non ti preoccupare, te lo presto io per 1.1.” “Ok, a questo punto ti devo 12.1 ma ne ho solo 11...”

È cosí che gli stati si indebitano e, con loro, noi tutti. Ogni banconota in circolazione rappresenta una percentuale di debito. Se non é tuo, sará di qualcun’altro. I cittadini, da parte loro, si indebitano con le banche. Per poter ripagare il proprio debito i cittadini, cosí come gli stati, devono produrre ricchezza. Far fruttare quei 10 in qualche modo per poter ripagare quei dieci piú gli interessi e, magari, conservare anche qualcosa per sé. Da qui la necessitá di avere un economia in costante crescita. Da qui la necessitá di avere una societá che consumi. Di avere l’economia in movimento. Se tu compri e spendi, qualcuno guadagna. Finché tutto gira va bene, piú o meno. Quando qualcosa si ferma il sistema va in tilt. Come in questi giorni che siamo chiamati a vivere.
Il lato B di questo sistema é che tende a concentrare la ricchezza. Alla fine della giostra, questo continuo scambio di debito accumula la ricchezza nelle mani di pochissimi. Quelli che il soldi li stampano, o i loro amici stretti. Quella stessa ricchezza originalmente intrinseca nelle risorse naturali, quindi di proprietà di tutti e nessuno, distribuita piú o meno equamente su tutto il pianeta. La scoria di questo sistema invece, il debito, che per ragioni intrinseche al sistema stesso che lo genera puó solamente continuare ad aumentare, si diffonde come un cancro verso i livelli piú bassi della società. Da qui i milioni di bambini che muoiono di fame. Non é che non hanno da mangiare, é semplicemente che non gli lasciano niente. E non possono mangiare debito. A volte riusciamo a nasconderlo provvisoriamente sotto il tappeto, facendo finta che non ci sia solo perché l'abbiamo affibbiato a qualcun'altro. Altre volte, infatti, succede che il giochino non basti più e ci esploda di colpo tutto in faccia. E allora anche noi uomini della strada ci rendiamo conto che, in realtà, avevamo un problema, ma non ci avevamo mai pensato sul serio. In questo senso occorre rendersi conto di come davvero non sia un problema nazionale, o locale, ma globale. 

Il problema sembrerebbe quindi risiedere nello stesso sistema che diamo per scontato. Ci siamo cosí abituati che non vediamo nemmeno piú il problema. Non riusciamo nemmeno ad immaginare come si potrebbe vivere senza soldi. E senza interessi. In realtà una cosa così piccola come gli interessi riesce ad avere effetti cosí globali. Un vero e proprio cataclisma.

Abbiamo iniziato a correre per un motivo. Continuiamo per abitudine. Come dei criceti ammaestrati. Sotto lo sguardo compiaciuto e invisibile di chi si diverte a nostre spese. Senza preoccuparci di dove andiamo. Finchè, forse, sarà troppo tardi.

Il contrasto lampante tra oltraggiosa ricchezza ed estrema povertà, con l’ingiustizia planetaria che ne deriva, non é peró l’unica controindicazione a questa sete di crescita e di consumo. Un’altra, ben piú grave forse, è il modo in cui questo sistema consuma le risorse finite della Terra. Producendo masse di rifiuti e inquinamento per avere in cambio niente. O meglio, per avere più debito e cose futili che realmente non ci servono. Consumiamo continuamente risorse finite, senza renderci veramente conto della loro preziosità. Senza chiederci il perché, o se ne valga davvero la pena. Come entrati in un circolo vizioso, in cui sono le nostre stesse balle ad assuefarci. Non ci rendiamo conto che tutto questo non é sostenibile. Sostenibile non é una bella parola priva di significato in bocca a qualche ambientalista hippy. Significa semplicemente che non ce lo possiamo permettere, se vogliamo continuare a vivere. Se non vogliamo estinguerci come specie. Transcinando nel baratro assieme a noi, peraltro, migliaia di altre specie innocenti. Continuiamo a consumare risorse senza criterio. Ancora prima che si esauriscano, la loro scarsezza in aumento determina una sempre maggior aggressivitá e violenza da parte dei potenti per poterne usufruire: aumentano le guerre. Morte e soprusi. Inguistizie planetarie.

In poche parole, ci é stata assegnata una possibilitá e la stiamo letteralmente sprecando. Le leggi naturali non si possono cambiare. Quando non ci sará piú acqua da bere, non ce ne sará piú. Quello che si possono cambiare sono le leggi dell’uomo. Quelle fatte da lui. Come questa pazzia generalizzata della crescita economica a tutti i costi.

Qual’é la soluzione?

La soluzione è prima di tutto, capire cosa sta succedendo. Essere consapevoli di quello che abbiamo davanti.  Di cosa ci aspetta. Che il problema vero non è lo spread. Non é la recessione.

Poi, proporre ed elaborare una alternativa. Anche se non se ne sente parlare, modelli alternativi esitono e sono quotidianamente discussi e migliorati. In alcuni casi idee piuttosto vecchiotte, elaborate in tempi non sospetti da gente abbastanza onesta da riuscire a (pre)vedere la realtá delle cose. Da riuscire a (pre)vedere l’insostenibilità di questo sistema.
Un’alternativa non puó prescindere dal fare a meno del mito della crescita. Nel sistema in cui viviamo, deve rispettarsi quello che viene definito equilibrio dinamico, volto al raggiungimento di un economia stazionaria. Un sistema che si adatta a quello che ha, in ogni momento, in modo da mantenere un equilibrio tra produzione e consumo. Tra l’uso delle risorse e il loro rimpiazzo. Un sistema in grado di mantenere dimensioni accettabili da poter continuare a vivere su questo pianeta. In mutuo rispetto. Potremmo definirla un Economia Basata sulle Risorse (Resource Based Economy), piuttosto che sul denaro.

Torniamo alle leggi naturali. Torniamo alle cose vere, a quelle che importano.

Torniamo a vivere in armonia col nostro pianeta. Non possiamo vivere senza di esso, non dimentichiamocene. 






sabato 3 dicembre 2011

Il prezzo da pagare


Oggi parliamo di buon senso, e di come lo abbiamo perso senza nemmeno rendercene conto.

A titolo di esempio, parliamo di energia. Dell’energia che vorrei, per tutti. L’energia che vorrei è pulita, non inquina e viene da fonti rinnovabili. Normalmente quelli che si sforzano di essere realisti a tutti i costi qui obbiettano: si, bell’idea...ma costa troppo, quella. La risposta a questa ben nota obiezione é in effetti abbastanza semplice, ma quanto mai rivoluzionaria.

L’energia rinnovabile non é fatta per costare di meno, 
ma per essere più giusta.

Non per risparmiare soldi quindi, ma perchè semplicemente é meglio per tutti. Per tutti. E per tutta una serie di motivi. Come spesso succede, parlando troppo di qualche cosa e partendo da posizioni fondamentalmente miopi o sbagliate, si finisce per abituarcisi e si perde il vero senso delle parole. Le parole, quelle, il loro senso non lo perdono mai. Siamo noi a perderlo. 
Credo sia arrivato il momento di mettere un po’ d’ordine nelle cose.

Prima di tutto, vorrei sottolineare che i soldi sono sono uno strumento creato dall’uomo come unità di misura del valore delle cose. Non sono il valore delle cose in sé, anche se ormai sembra lo siano diventato. Dobbiamo renderci conto che il prezzo é qualcosa ben diverso dal valore. Il prezzo é un etichetta che qualcuno attacca alle cose. Il valore é qualcosa di intrinseco alle cose stesse. In realtá mi sembra che il valore vero delle cose si sia distaccato nel tempo sempre di piú dal valore che noi gli assegnamo, in termini monetari. Dovremmo allora domandarci, quali sono i criteri per cui si assegna un prezzo alle cose? E subito dopo, siamo d’accordo o stiamo forse tralasciando qualcosa?

C’é un elefante nella stanza e nessuno ne parla.

La corsa al ribasso dei prezzi, che il nostro sistema basato sul profitto esige a tutti i costi, ci spinge ad essere volutamente ciechi e sordi. Ci sono cose che semplicemente e volutamente ignoriamo a tal punto che oramai non esistono nemmeno piú. Perché se il costo dell’energia é semplicemente il prezzo che paghiamo, allora stiamo ignorando alcune cosette. Del tipo

  •           Inquinamento e salute pubblica: qui non serve dire granché, tutti lo sanno e tutti sanno che lo stanno ignorando. Chiunque ne abbia l’interesse puó documentarsi fino al vomito su tutte le conseguenze ambientali che l’estrazione di combustibili fossili o lo smaltimento di rifiuti radioattivi ha sull’ambiente. E sulla salute di quelli che in quell’ambiente ci vivono. Cito solamente a titolo di esempio il piú recente ed eclatante, il versamento di greggio nel Golfo del Messico l’anno scorso, in seguito all’incidente sulla piattaforma Deepwater Horizon. A proposito, continuate a sentirne parlare? Sará tutto a posto ormai, dico io...tutto risolto.
  •           Sicurezza nell’approvigionamento: dobbiamo continuamente essere docili e accettare compromessi con chi non dovremmo solo perché hanno il coltello energetico dalla parte del manico. Se dalla Russia per qualche motivo si chiudono i rubinetti del gas in Europa ci si gela il culo di colpo. Per non parlare del Medio Oriente. Etica e morale non dovrebbero scendere a compromessi per garantire sicurezza e qualità di vita.
  •           Guerre: necessarie per accaparrarci le materie prime di cui abbiamo bisogno, visto che sono concentrate solo in certe regioni e ne siamo talmente dipendenti che come in una crisi di astinenza le vogliamo violentemente tutte per noi e a tutti i costi.
  •           Vivere in un perenne stato si scarsezza di risorse innalza i prezzi per il beneficio di quei pochi che le controllano, conferendogli di fatto un potere smisurato che per noi uomini della strada é davvero difficile immaginare e comprendere.


Un dato solo per farvi capire la fallacitá del prezzo dell’energia. Nel 2010 il governo americano ha sovvenzionato l’industria petrolifera col fine di abbassare i prezzi di vendita per qualcosa come 409 miliardi di dollari (fonte: IEA – International Energy Agency). In totale Bloomberg New Energy Finance stima che le sovvenzioni all’industria dei combustibili fossili siano state pari a 557 miliardi di dollari. Sapete quanto ha speso nello stesso anno per le rinnovabili, tutte le rinnovabili nel loro complesso, considerando gli enormi investimenti richiesti da questo settore ancora immaturo in confronto a quello petrolifero pienamente sviluppato? Considerando tutte le belle parole e le buone intenzioni costantemente sciorinate pubblicamente? 46 miliardi di dollari. 12 volte di meno.
Cosa succederebbe se questi investimenti si invertissero? Sarebbe davvero cosí diverso il prezzo da pagare? E perché non lo fanno? Sembrerebbe una strategia sensata a lungo termine, no? Chi glielo impedisce?
Sbilanciamoci ancora di piú. Consideriamo tutti quegli altri punti che non sono assolutamente compresi nel prezzo in denaro. Ambiente, salute pubblica, sicurezza, guerre. Guerre che sono un business enorme, “l’unico in cui i profitti si stimano in dollari e le perdite in vite umane” (Smedley Butler - Maggior Generale - Corpo della Marina degli Stati Uniti, 1935). Proprio un bell’affare, gran profitti.
Dobbiamo davvero continuare a ragionare solo ed esclusivamente in termini di soldi? Non vi pare che quest’attitudine ci stia rendendo ciechi e sordi alla realtá delle cose? Non vi pare che ci stiamo separando dal mondo reale, in cui pure tuttavia siamo e saremo costretti a vivere?

C´é un concetto molto interessante che viene, a volte, usato in ingegneria; si chiama Analisi del Ciclo di Vita o LCA – dall’inglese Life Cycle Assesment. É un concetto veramente rivoluzionario, a guardarlo bene, rispetto al modo in cui siamo abituati a ragionare. Si tratta di considerare l’utilità di ogni prodotto o processo, ossia qualsiasi cosa vi possa passare tra le mani o per la testa, in base ai relativi impatti che esso puó avere durante il suo intero ciclo di vita. Impatti positivi e negativi. Dalla culla alla tomba, come si dice. Alla fine tutti questi impatti si soppesano matematicamente per vedere se, dopotutto, conviene o no farlo. Un approccio che potremmo definire olistico. Forse andrebbe usato di piú.
Nel segno del piú rigoroso e imparziale metodo scientifico, quantifichiamo ogni possibile impatto positivo o negativo (sull’ambiente, la societá, la salute umana, l’economia) che la produzione, l’esercizio, la manutenzione e lo smaltimento di un qualsiasi prodotto o servizio provocheranno durante tutta la sua vita utile. Il prezzo monetario in questo senso é solo una delle tante componenti. Probabilmente non sempre la piú importante. Proviamo a fare questo esercizio mentale.

Pensiamo per un momento a tutte quelle cose prodotte in Cina che compriamo di continuo perché costano poco. Per arrivare a noi hanno dovuto viaggiare migliaia di km, usando combustibili fossili che, forse proprio perché sovvenzionati, costano poco. Tutti sappiamo peró che inquinano e che si stanno esaurendo. Per essere prodotti hanno dovuto sfruttare, a livelli per noi occidentali inaccettabili, il lavoro di persone che probabilmente non fanno altro nella loro vita. Persone-robot. Tutto questo nel prezzo di vendita non c’é. E il valore? Poca qualitá, in genere. Probabilmente si userá qualche volte e poi lo si butta e se ne compra un altro. Un nuovo rifiuto che andrá smaltito, non si sa bene come e dove.

Nuove materie prime insostituibili andate perse. Nuova energia sprecata. Altro inquinamento. Ingiustizia sociale perpetuata.

Vi pare un costo da poco?

Un’economia basata sul puro costo monetario é davvero utile per l‘uomo?





venerdì 2 dicembre 2011

Responsabilità partecipativa contemporanea


Il tempo, come ormai è comunemente accettato, è relativo. Relativo in molti sensi. Einstein ci spiega che piú rapidamente ci muoviamo, piú il tempo si dilata in sé. Passa piú lentamente. Concetto per lo piú teorico, di cui abbiamo scarso riscontro nella nostra vita quotidiana, ma che é pur sempre lí. Un fenomeno fisico in sé e uguale per tutti che potremmo definire, con buona pace di Einstein, assoluto.
La dilatazione del tempo peró, a livello umano, é soprattutto psico-emozionale. Un qualcosa, questo, che tutti abbiamo sperimentato in prima persona. Dilatazione qualitativo-quantitativa. Un processo, questo, estremamente relativo.
Potremmo allora dire che sono le nostre azioni e le circostanze in cui ci troviamo a cambiare il tempo. Ne cambiano il corso e ne cambiano la sostanza. Sentiamo di averne di piú o di meno e lo viviamo in maniera diversa.

È forse vero anche il contrario? Puó il tempo influenzare le nostre azioni? Direi proprio di si e, ancora, in piú di un senso. Se intendiamo il tempo in maniera assoluta come il tappeto rosso che si srotola davanti a noi, quale in effetti é, quello che possiamo conoscere solo all’indietro e vivere solo in avanti, allora é evidente che non ci comportiamo di certo nello stesso modo in cui ci si comportava, ad esempio, nel Medio Evo. Se invece lo interpretiamo in maniera relativa, allora é anche vero che non ci comportiamo nello stesso modo nemmeno al sapere di avere un minuto o 10 ore per fare qualcosa.

Le nostre azioni, intese come azioni della collettività, hanno avuto lungo la storia enormi conseguenze. Non hanno in questo caso modificato il tempo in sé, che continua inesorabile il suo corso come ha sempre fatto; hanno peró modificato la nostra societá e il modo in cui vediamo il mondo. L’insieme delle inevitabili conseguenze che ogni azione porta con sé ha modificato la nostra concezione del tempo in cui viviamo e, di conseguenza, il nostro modo di vivere in esso. Necessariamente, ogni nuovo tempo ha poi portato con sé azioni diverse, nuove anch’esse. É la storia dell’evoluzione e del progresso della nostra societá nel tempo, la stessa che ci spinge costantemente a cambiare il modo in cui agiamo e vediamo il mondo.
Le nostre azioni influenzano il tempo. Il tempo influenza le nostre azioni.

Le nostre azioni influenzano le nostre azioni.

Il trascorrere del tempo porta con sè avvenimenti e novità, scoperte e idee. Una nuova concezione della societá e della natura che ci circonda. Un nuovo rapporto con la spiritualitá e una nuova scienza. Nuovi rapporti interpersonali, nuove esigenze e nuove paure. Una nuova visione del mondo e concezione del nostro ruolo di suoi coinquilini privilegiati. Un nuovo paradigma comunemente accettato da tutti per descrivere il complesso e intricato insieme di relazioni in cui viviamo, nel cui ci muoviamo.
Tutto cambia, con il tempo. Tutto cambia, perché non riusciamo a stare fermi. Siamo inesorabilmente mossi da qualcosa, qualcosa che ci spinge a fare meglio di prima, a cercare nuove soluzioni per vivere meglio o anche per il puro e semplice piacere della scoperta e della conoscienza. Siamo nomadi, non ci accontentiamo mai.





Il sistema in cui ci organizziamo si è costantemente evoluto fino ad arrivare qui, oggi. Ma al percorrere la linea del tempo si vede quel che si ha alle spalle ma non quel che si ha davanti, credendo spesso di essere arrivati. Che non ci sia niente di nuovo piú. Accade peró, spesso non senza sorpresa, che quella linea si allunga ancora un po’, e un altro po’ ancora...e cosí continua, sempre.
L’uomo si é sempre organizzato in una qualche struttura sociale, per sopravvivere. Da ognuna di essa é inevitabilmente emerso un certo gruppo di persone che, per qualitá o meriti fuori dalla norma, si é assunta la responsabilitá di guidare gli altri verso un cammino sicuro. Organizzazione della societá e leadership. La cosiddetta classe dirigente, quelli che, in un modo o nell’altro, reggono il potere tra le dita.
Ogni sistema ha prodotto una classe simile salvo poi, seguendo l’inevitabile corso della storia e del tempo, abbandonarla nel momento in cui nuove forze e pulsioni hanno prodotto un cambiamento sostanziale nel sistema di cui quella classe dirigente era l’espressione. Curiosamente, si tratta spesso e volentieri di qualcosa originatosi e all’esterno della classe dirigente stessa. La classe dirigente, il gruppo dei potenti, per definizione, tende ad autoperpetuarsi. Tende a rimanere al potere. Con o senza malizia. Vuoi perché non vedano il cambiamento, vuoi perché non lo accettino. Vuoi perché vogliano rimanere al potere, dimenticandosi del motivo per cui ci sono arrivati: servire gli altri per via delle proprie capacitá fuori dalla norma. Si tratta spesso di una degenerazione di qualcosa di nobile in qualcosa che suona molto come “il potere per il potere”. Da che mondo é mondo il sistema stabilito si é potuto cambiare solo grazie a spinte provenienti dall’esterno della classe dirigente di quello stesso sistema. A volte in modo sommamente violento e tragico. A volte meno. Sempre e comunque obbediendo all’ineluttabile pulsione umana che ci richiede, gridando, progresso.

Ma che cos’é il progresso? Significa forse modernizzazione? Significa fare piú soldi? Significa fare di piú con meno? Progresso significa un qualche insieme di azioni volte al miglioramento della condizione di vita umana. Si puó parlare di progresso tecnologico, scientifico, ecnomico, sociale etc...
La naturale sete di progresso, intrinseca nell’uomo, ci ha sempre spinto verso il cambio. Ineluttabilmente, il cambiamento arriva. Lo si voglia o no. E tende ad arrivare per mano di chi non beneficia piú di tanto del sistema attuale, normalmente gli stessi ad avere piú urgenza nel cambiarlo. Non si tratta forse di qualcosa di particolarmente nobile. Il potere corrompe chiunque. Forse si tratta di mera causalitá. Chi non ha, vuole; chi ha giá, non vuole cedere.

Considerando l’inesorabilitá del cambiamento, che ci accompagna da sempre, emerge il fatto che niente é giusto o sbagliato in sé e per sé, ma andrebbe sempre giudicato nel suo contesto storico, socio-economico, tecnico-scientifico. Tutto é relativo. La migliore opzione 100 anni fa probabilmente non lo é piú ora, visto il progresso maturato in questo lasso di tempo. Vale allora la pena fare qualche domanda: 
  1. Quali sono i tratti salienti che caratterizzano il sistema in cui viviamo? Sono adatti al nostro tempo, sia in termini di esigenze che di possibilità? Ovvero, questo sistema é in grado di soddisfare le esigenze dell’umanitá del giorno d’oggi? Si avvale di tutti gli strumenti che migliaia di anni di progresso gli mettono ogni giorno a disposizione? Ma soprattutto, sta usando adeguatamente le incredibili possibilitá che il vertiginoso progresso tecnico-scientifico degli ultimi 100 anni, seguendo un andamento esponenziale, gli continua a fornire giorno dopo giorno?
  2. Crediamo esista un’alternativa migliore a questo sistema? Con alternativa non intendo dire andare a vivere sulla Luna, ma un’alternativa concreta, attuabile, percorribile ma sostanziale all’architettura che permea la nostra visione del mondo.
  3. Cosa sta facendo l’attuale classe dirigente per preservare il proprio potere, al giorno d’oggi? Se il progresso esiste davvero, forse hanno in mano gli strumenti piú potenti di sempre per garantirsi di mantenere saldo il potere nelle loro mani. Immaginando che sia cosí, quali sono questi strumenti? Stanno influendo nella nostra capacità di immaginarci un’alternativa?





Il sistema in cui viviamo si contraddistingue per una diseguaglianza estrema. Se tutti gli uomini sono nati uguali, apprendiamo ben presto che non é affatto cosí. Vediamo costantemente bambini morire di fame o, anche se non li vediamo, sappiamo perfettamente che sono lí. Uno ogni 5 secondi in media su questo pianeta. Qual é la differenza tra loro e noi? Mera casualitá. L’essere nati nella parte sbagliata del mondo. Concepiti nel letto sbagliato. Siamo davvero pronti ad accettarlo e a continuare a tenere chiusi gli occhi?
Vogliamo davvero continuare a inchinarci ad un sistema cannibale basato sul mito della crescita e del profitto? Vogliamo stare a guardare mentre come un cancro divora tutte le risorse del pianeta su cui viviamo da sempre, senza offrirci nessun’altra possibilitá?
Viviamo in una societá giusta, o forse siamo tutti solamente degli egoisti? Siamo davvero tutti struzzi che finché non ci tocca a noi il problema non esiste? Guardiamo sotto un’altra prospettiva quello che sta succedendo in Europa. Siamo pur sempre lontanti anni luce da quello che é sempre successo in aree piú o meno remote del pianeta. Soprusi, violenze, morte, povertá. Eppure é quello che ci aspetta, prima o poi. Anche a noi ricchi, educati e perbene.
Il punto, qui, non é quando arriverá. State pur certi che arriverá. Il punto é se riusciamo davvero ad accettare l’idea che arrivi, fino al punto da rimanere inermi sulla rotta di collisione aspettando l’impatto.

Io credo che un alternativa sia possibile. E credo che sia ora di prendersi le proprie responsabilitá, in prima persona. Non si puó pretendere di essere ascoltati seriamente senza dare l’esempio. Gandhi diceva

sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo

E allora per quanto mi riguarda cercheró di fare del mio meglio, nel mio piccolo, per cambiare le cose. A cominciare da qui. Per elaborare e proporre un’alternativa. Magari per essere d’ispirazione a qualcuno. Al pari di tutte quelle, tante, persone che lo sono state per me. Di quelle che continuano ad esserlo. Di quelle che lo saranno.

Credo che sia arrivato il momento di aprire gli occhi, di alzarsi davvero in piedi e di prendersi, tutti, le proprie responsabilitá. Di togliere la testa dalla sabbia. Perché se non lo facciamo, se non agiamo subito, immediatamente, ognuno cosí come potrá, possiamo ben considerarci complici di tutto quello di cui tanto ci piace lamentarci.

Il tempo cambia e si evolve, e noi con lui. Il tempo di aspettare che qualcuno faccia qualcosa é finito. É iniziato il tempo della responsabilitá partecipativa. Attiva. Contemporanea. Individuale prima ancora che collettiva.


Agire per cambiare il tempo, come abbiamo sempre fatto.




Corre l’anno 2011. 

Chissá se il 2012 sará davvero la fine del Mondo. As we know it.









domenica 13 novembre 2011

Come gestire il post-sbornia?


Sono convinto che dovremo farci passare in fretta l’euforia per la caduta del sovrano assoluto di quest’ultimo ventennio italiano. Abbiamo delle cose molto serie da fare, compiti fondamentali cui assolvere.

Al momento condivido la scelta che è stata fatta. Bisogna agire, agili e svelti, ma soprattutto farlo in maniera competente. Anche se non si condivide il sistema generale nel quale viviamo, cosa che mi riguarda in prima persona e profondamente, non mi sembra che al momento ci siano alternative a una scelta di questo tipo. Parliamo di quello stesso sistema in cui la finanzia occulta, la corruzione e il malcostume diffuso la fanno da padrone incontrastato, limitando ogni giorno la sovranità popolare e il diritto all’autodeterminazione dei popoli. Sono d’accordo. Ma volendo o no, siamo in ballo e dobbiamo ballare. Finché non cambieremo il sistema in sé, profondamente, dovremo giocare secondo le sue regole. In questo senso per quanto ci si voglia riempire la bocca in questi giorni di tutti questi termini in stile “popolo sovrano” “democrazia elettiva” “autodeterminazione” “commissariamento”, limitati in quel senso lo si era già da tempo, ma dall’interno.
Occorre ora ritornare a una fase di pseudo-stabilità, di normalità. In cui si possa ragionare lucidamente, non dimenticandosi di colpo di tutti i legittimi spauracchi di questo mondo ombra finanziario che si sono, giustamente, materializzati in questi giorni. Né dimenticandoci di quello che abbiamo appena passato, della nostra storia. Parafrasando Montanelli: un paese che dimentica la sua storia, non può avere alcun futuro. Bisogna sforzarsi, questa volta, di non avere la memoria corta.

Ma l’ubriacatura da caduta di regime non ci deve durare più di tanto. Sarà molto difficile, ed é quasi un paradosso. Perché se mentre era vivo e vegeto il suo scopo era quello di azzerare la nostra capacità critica, potrebbe benissimo raggiungerlo da morto, se si pensasse che ora di colpo e quasi per magia tutti i nostri problemi fossero risolti. Eh, no.
Come ho già detto è necessario, è perfino salutare in questo momento gioire ed essere felici, perché per quanto ci sia ancora tanto da fare davanti a noi – la maggior parte dei sacrifici probabilmente – stiamo pur sempre vivendo un momento storico di cambiamento. Dopo un purgatorio lungo 20 anni, che in pochi hanno continuamente denunciato e in molti hanno direttamente o indirettamente sostenuto, é un momento che deve dare la scossa per iniziare il meccanismo che porti al termine un’era che, finita, ancora non lo é.
Poco importa, in questo senso, se la scossa l’abbiamo data da dentro o ce l’hanno data da fuori. Ne avevamo bisogno. Perché i problemi di casa nostra sono, ancor prima che economici, socio-culturali.  Che fosse allora, purtroppo, l'unico modo possibile? Abbiamo bisogno di riavvicinarci con fiducia ed onestà alla cosa pubblica. Con rigore e con stile sobrio. Badando ai fatti e non all’immagine. Rifuggendo le pagliacciate e il grottesco, anelando quasi un po’ di noia e formalità. E con passione sincera. Passione che si era tramutata in odio e rancore da una parte, in servilismo dall’altra. Ora dobbiamo dire basta e tornare a una lucida analisi delle cose.

Prendetevi un caffè e fatevi passare il mal di testa del giorno dopo, si deve iniziare da subito. Puntiamo i nostri riflettori critici su quello che ora succederà. Facciamolo per una volta senza partito preso.
Abbiamo dei problemi da affrontare e ci si dice che arriva gente competente a risolverli. Se così sarà saremo pur chiamati a sacrifici, ma non saranno invano e soprattutto non saranno iniqui. Se così sarà, allora le cose miglioreranno.
Ci sono ombre e dubbi dalla provenienza di questi signori, che per la maggior parte di noi sono sbucati fuori dal nulla. Dubbi sulla possibilità di doppi giochi e interessi privati. Bene, prendiamone atto e non abbassiamo la guardia. Ma diamogli una possibilità e giudichiamo sulla base dei fatti, non delle paure o delle prese di posizione a priori. Vi prego, basta con le ideologie.
In questo momento, ci si dice che c’é bisogno di scelte che sono state rimandate troppo a lungo. E ce n’é bisogno adesso. Prendiamo coraggio e proviamoci allora. Non ho creato io le regole, e a dirla tutta non mi piacciono neanche un po’. Credo che sia un sistema marcio e che, se non ora, arriverà un altra crisi a spazzarlo via in modo drammatico. Ma ho anche la speranza che non debba essere spazzato via da una crisi, ma dalla cosciente e pacifica mobilitazione di milioni e miliardi di persone che non ci stanno più ad essere burattini. E forse questo non può succedere ora, in un’emergenza acuta di queste proporzioni, senza arrivare alla rivolta vera e propria. Quella che porta morte e sofferenza.

Allora l’invito é quello di avere fiducia nel cambiamento perché, scusate il francesismo, con le pezze al culo c’eravamo già da tempo. Commissariati da qualcuno c’eravamo già, stranieri o nostrani conta qualcosa veramente? Affidati a una cricca preoccupata dei propri interessi privati, c’eravamo già. Per di più, dovevamo anche assistere alla continua decadenza morale e denigrazione di un popolo intero che, forse, merita di meglio.

In un momento che simboleggia il cambiamento, ma non lo rappresenta in sé, guardiamo con fiducia al futuro. Diamo una possibilità al futuro, ma non togliamo il piede dell’acceleratore e rimaniamo con gli occhi ben aperti. Poi quando, e se, le cose torneranno ragionevolmente stabili, potremo e dovremo continuare a pensare ad una rivoluzione ben più grande, una rivoluzione pacifica e globale che riguardi questo sistema nel suo complesso e che permetta a tutti di vivere meglio, e a nessuno di dover più passare per momenti simili.

La mobilitazione non finisce mai.

Non scambiamo una battaglia per la guerra.






Keep on rocking in the free world.

sabato 12 novembre 2011

Cosa dovremmo pensare?


Sono giorni di fermento, giorni in cui ti puó anche scoppiare la testa a forza di pensarle tutte. È proprio in giorni come questi che l’unica soddisfazione che uno può prendersi è quella di fermarsi un momento a pensare e riflettere su cosa stia, effettivamente, succedendo. Perché se proprio di devono fregare in qualche modo, almeno esserne consapevole. Saperlo, capire il come e il perchè. Magra consolazione.
Da dove si parte per provare a mettere un po’ di ordine? Come sempre, iniziamo dai fatti.

Il governo Berlusconi è finito. Il berlusconismo, pesantissima eredità di molti più dei 17 anni di governo, quasi sicuramente no. Siamo sull’orlo della bancarotta. Non capiamo bene se la democrazia esiste ancora o no. Perchè se in Africa i governi cadono sotto le bombe, quelle vere, in Europa e nel mondo libero ormai cadono sotto gli oscuri colpi della finanza.

La vera domanda qui è: Cosa dovremmo pensare? Qualcuno, uno che ne sapeva, diceva che a pensare male si fa peccato, ma spesso si indovina...vediamo dunque.

Possiamo immaginarci che la realtà esista sottoforma di due livelli, due mondi paralleli.
Uno è quello ufficiale, quello delle dichiarazioni, quello formale. Quello della politica, per intenderci. Quello di facciata, che tante volte puzza ma che si fa meno fatica ad ingoiare e mandar giù perché tutto sommato si capisce e si crede di conoscere. L’altro é quello oscuro, sotterraneo, quello che muove i fili restando nell’ombra, che ci rende tutti burattini. Quello delle cosidette teorie del complotto, quello che niente è come sembra, niente è scontato. Quello che bisogna scavare sotto la superficie per vederci chiaro, quello che tutto ha un doppio significato. Simbolismo e massoneria. Elite non elette. Mondo finanziario e gotha globale. Matrix.

A quale credere? Se ti fai questa domanda, è evidente più che mai che non c’è niente in cui credere. Non bisogna credere, bisogna per quanto possibile cercare di informarsi e far girare le rotelline arrugginite che tutti abbiamo in testa. Iniziamo da qui allora.

Mondo ufficiale

Si fa un gran parlare di governo tecnico. Dovremmo andare democraticamente a votare o delegare temporaneamente la nostra sovranità a qualcuno che non abbiamo eletto ma con le competenze per tirarci fuori dai problemi? La domanda assume un significato particolare qui: crediamo ancora nella politica?

C’è chi sostiene che la politica non serva a niente. Spesso mi ritrovo a pensarlo anche io. La politica, intesa come il teatrino cui stiamo assistendo ormai da troppo tempo, staccata dai bisogni e dalla passione della gente, quella che si alimenta di ideologie piuttosto che di problemi concreti e quotidiani, che si nutre di miti elaborati ad arte, aliena alle dinamiche del mondo reale, quella politica non serve a niente.
Peró le masse non si gestiscono da sole e noi, volendo o nolendo, nei nostri 7 miliardi di unità siamo masse. Quindi si è inventata la democrazia rappresentativa per delegare il proprio potere decisionale a qualcuno, sulla base di principi condivisi. Su basi prevalentemente ideologiche. E qui è dove le cose, ultimamente, sono cambiate. Con l’avvento della società della comunicazione, dell’accesso all’informazione e alla conoscienza reso possibile a tutti, del boom dell’educazione, forse è ora di pensare la cosa diversamente.

C’è qui chi sostiene che i problemi che ci troviamo ad affrontare sono, per la stragrande maggioranza, problemi di natura tecnica e, come tali, andrebbero affrontati. Non c’é un modo di destra o di sinistra per costruire un aereo, se vuoi farlo volare. È qui allora che la politica perda ogni senso. Quello che servirebbe non è la politica al potere, ma la ragione al potere. Delegare le decisioni che affettano il bene della comunità piú che alle ideologie ad un processo logico e razionale, basato sul metodo scientifico. Dimostrami che hai ragione, non dirmi che hai ragione. Se possiamo descrivere un problema in termini matematici, scientifici, allora abbiamo degli strumenti eccezionali per poterlo risolvere. Per risolverli in maniera libera da contraddizioni, da doppiogiochi, da corruzione, da menzogne, da convenienze personali. È tutto trasparente e sotto gli occhi di tutti.

In una prima approssimazione, è quello che si intende per governo tecnico. Se poi volessimo emanciparci da quell’enorme limitazione che è la necessità di delegare a pochi le decisioni che affettano il bene di tutti, allora arriveremmo alla ricchezza vera, quella che nasce dalla cooperazione. È il concetto dell’open source. Nella sublimazione di questo concetto, tutti possono e tutti DEVONO partecipare. Abbiamo gli strumenti per poterlo fare, oggigiorno. Questa, sì, sarebbe democrazia allo stato puro. Wikitecnocrazia 1.0.

Ma rimaniamo con i piedi perterra, rimaniamo nel presente. Torniamo alla democrazia rappresentativa, si parlava di governo tecnico. Una prima approssimazione. Basi tecnico-scientifiche, non sinistro-destriche. In questo senso mi pare che non possa che essere una buona novitá. In un momento in cui siamo sull’orlo del baratro non vorrei proprio affidare le nostre sorti nelle mani di chi si preoccupa di garantire una maggioranza piuttosto che di risolvere i problemi che abbiamo. Se i problemi sono principlamente economici preferisco, lo confesso, un economista a un politico. Problemi che sono sotto gli occhi di tutti, e non sono nè di destra nè di sinistra.

Se solo uno non volesse considerare anche quel submondo che potrebbe esistere sotto la superficie, parrebbe proprio che le cose si stiano mettendo per il verso giusto.

Mondo oscuro

C’é chi dice che non esiste più la sovranità popolare, in quanto tale. Che gli stati nazionali non hanno più alcun senso. Che i nuovi stati, al giorno d’oggi, sono le multinazionali. Che chi muove i fili di tutto quello che succede sono una manciata di persone dell’elite finanziaria mondiale, che si riuniscono in totale segretezza con lo scopo di dirigire gli avvenimenti a livello globale in modo da ricavarne un beneficio, loro, alla spalle di tutti gli altri, il famoso 99%. Una specie di setta oscura e malefica che, mossa da interessi esclusivamente personali, perpetua quotidianamente un unico enorme crimine contro l’umanità. Concentra la ricchezza mondiale nelle mani di pochissimi a scapito della qualità delle nostre vite e dell’ambiente. Con disprezzo per la vita stessa. Il potere per il potere.

Avete visto matrix? Ecco. Nel vero mondo ombra invece delle macchine chi controlla il mondo fittizio in modo da darci l’illusione di essere arbitri delle nostre decisioni (vedasi democrazia rappresentativa) è probabilmente un gruppetto di qualche centinaio di persone di cui non si conosce la faccia, chiusi in una stanza e che ci guarda sogghignando maleficamente dall’alto di un qualche superattico.

Dovremmo crederci? Abbiamo abbastanza prove quotidianamente sotto gli occhi a suffragare questa ipotesi, prove che forse tante volte non siamo abbastanza allenati da vedere. O non vogliamo vedere.

Dove voglio andare a parare?

C’è chi dice che il governo in Italia è caduto per colpa dei mercati. Qualunque cosa significhi, non ha poi tutti i torti. Qualche potere oscuro – che la gente comune non capisce,  non conosce –  ha assestato un attacco mortale negli ultimi giorni. Il governo è caduto immediatamente dopo mesi, forse anni, in cui stava in una specie di coma farmacologico. Un’escalation inarrestabile. Gli stessi che sostengono queste cose ci dicono anche attenti, perché il salvatore della patria, il tecnico competente che sta arrivando a salvare il paese, l’unico e il solo che puó uccidedere quel drago malefico che è lo spettro incombente della bancarotta, altro non è che un uomo mandato proprio dallo stesso potere occulto. Quello che controlla i fili del mondo. Lo stesso che ha appena assestato il colpo mortale. In quest’ottica, sarebbe il crimine perfetto. Agendo nell’ombra tutto è possibile.

Assestiamo un colpo mortale ad un paese, con le nostre armi finanziarie, poi mandiamo uno dei nostri a prenderne il comando col pretesto di salvarlo. E a salvarlo, dato che i fili di tutto li muoviamo noi, certo che ci riuscirà. La gente lo acclamerà. Nel frattempo li convinceremo che dovranno fare sacrifici, che è l’unico modo per risolvere il problema. Diamo la colpa alla politica e mandiamo un non politico. Il problema è economico? Mandiamo un economista. Il crimine perfetto. Saranno perfino contenti di morire lentamente. E qualcuno ci guadagnerà, come sempre.

Cosa dovremmo pensare?

Non lo so. In ogni caso non è che cambi più di tanto le cose, adesso come adesso.
Quello che mi fa sospettare è che, ancora una volta, depositiamo tutte le nostre speranze in un illuminato uomo della provvidenza, l’uomo giusto al momento giusto. Sbucato fuori all’improvviso dall’ombra. Un uomo nuovo. Che salverà l’Italia, l’Europa e il Mondo (per dirla con il Wall Street Journal). Siamo pieni di aspettative e pronti al peggio. Sull’orlo dell’esasperazione e della paura non si ha più tempo per la critica, si fa passare qualsiasi cosa alla svelta. Per far fronte alle emergenze, si è pronti a tutto. Noi siamo il paese delle emergenze. Ma se le emergenze fossero create ad arte per indorarci la pillola?

A pensar male si fa peccato...