sabato 26 maggio 2012

Ma quest'Europa, che cos’é?


Bella domanda. Con tutto quello che se ne parla... eppure credo che valga la pena riflettere un attimo su cosa sia, e cosa significhi, davvero, l’Europa. Perché c’é tanta, troppa (e voluta) confusione.



É DAVVERO L'UNIONE CHE FA LA FORZA?

Mi piace pensare all’Europa come unita, ma divisa allo stesso tempo. La scacchiera su cui giochiamo oggi si é ampliata notevolmente, e con essa gli orizzonti. Se un tempo arrivava al massimo ai bordi del vecchio continente, oggi é globale. In questo modo le differenze sono aumentate a tal punto da risaltare paradossalmente quello che abbiamo in comune. L’essere uomini. E, per noi europei, le nostre radici comuni. Che nascono da un’antica storia comune. Da un filo logico – non sempre pacifico – che si é sviluppato, nella sua complessitá e polivalenza, comunque per tutti allo stesso tempo. Dopo la seconda guerra mondiale qualcuno (il vero perché non é l’argomento di cui parliamo, ma varrebbe la pena approfondirlo) si rende conto che in fin dei conti é arrivato il momento di guardare al di lá delle differenze che ci hanno portato 30 anni di guerra. Per farle diventare opportunitá, invece che causa di problemi. A ben vedere, si tratta di qualcosa di fantastico. É bellissimo. É vero progresso.

L’Europa, da quel momento, diventa un polo di vero progresso. Diventa un sogno. Si distingue da tutto il resto del mondo. Non si tratta del vecchio motto opportunistico “l’unione fa la forza”. No, non c’é niente da guadagnare dall’essere uniti se non se ne capisce il perché. La vera rivoluzione qui, sta nel riconoscere la nostra diversitá e nel guardare oltre. Nell’ampliare la visione d’insieme elevandosí un po’ piú in alto, per vedere che é proprio quella la nostra ricchezza. In realtá qui si parla di cooperazione, non di unione. Un corpo umano non sopravviverebbe se fosse solo composto di cuori. Di quello ne serve uno. Come di un fegato e di un cervello e cosí via. Ma perché l’organismo funzioni bene davvero, essi devono conoscere le loro funzioni alla perfezione, lavorare bene e cooperare bene. Io rimango con quell’idea di Europa, non con quella che oggi ci sbandierano in continuazione davanti agli occhi. L’Europa unita, l’Europa piatta. L’Europa uguale per tutti. A me piace l’idea di un Europa cooperativa che si arricchisce grazie alle proprie mille identitá.



UN'EUROPA PER L'EUROPA

Perché é bene che rimaniamo diversi e lo riconosciamo, affinché la diversitá non torni ad essere tabú e pretesto di guerre. E perché cooperare non significa fingere di essere uguali questo la storia ce lo ha insegnato fin troppo bene. Se si ignora questo, possono solo nascere problemi. Problemi di ipocrisia.

Perché le stesse regole non valgono per tutti. Perché bisogna conoscere il proprio territorio alla perfezione per poterlo amministrare al meglio. Credo che la sovranitá (che appartiene al popolo) vada gestita nella maniera piú locale possibile per potersi adattare alla vera realtá di ogni luogo. Poi, quello che serve dall’alto, é una visione comune per coordinare le politiche locali. Per dargli una direzione chiara e condivisa. Servono principi e valori. Ma poco altro.
A vederla cosí, si direbbe che quello che abbiamo in comune per davvero, é che siamo uomini. Uomini che percorrono quotidianamente strade talvolta profondamente diverse, su uno sfondo storico-culturale e ambientale distinto. Ma dopotutto uomini che hanno le stesse aspirazioni di giustizia, felicitá e amore. L’Europa deve essere questo. Deve essere qualcosa che, a costo di sembrare mieloso e inutile, ci dia una direzione da seguire. Qualora ce la dimentichiamo, calati come siamo nella realtá di tutti i giorni. Deve essere qualcosa di elevato. Qualcosa di “al di sopra”, che veda lontano. Che superi le barriere del tempo e dello spazio, laddove noi uomini spesso restiamo intrappolati. Quello deve essere il suo fine ultimo e unico. Per il resto, occorre che il potere sia gestito laddove va applicato.



SOVRANITÁ E DELOCALIZZAZIONE

Credo che non dovremmo cedere nessun tipo di sovranitá a nessun tipo di ente sovranazionale. Anzi, credo che dovremmo recuperare buona parte della nostra sovranitá a livello sotto-nazionale, a livello locale. Ci sarebbero meno sprechi, piú fiducia e piú partecipazione. Credo che il sistema organizzato gerarchicamente vada piú che bene. Ma credo che serva renderlo piú efficiente, evitando livelli di gestione ripetitivi e inutilianalizzando le vere prioritá. Il vero potere deve restare vicino il piú possibile alla persona, all’uomo. In modo che si adatti alla realtá e rimanga reale. Piú potere ai comuni, dunque. O perfino ai quartieri, nelle grandi cittá. Le province? Non servono, grazie. Le regioni e gli Stati? Discutiamo il loro ruolo. Ma che l’Europa ci sia, e che faccia l’Europa dandoci una direzione giusta da seguire. Una direzione valutata in maniera olistica, che abbia come fine ultimo la realizzazione personale dell’uomo nella sua interezza. E nel rispetto dei suoi diritti, come sancito dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.



EURO, DENARO E MONETA

E non credo che la sovranitá monetaria debba rimanere in mano all’Europa. L’Euro potrebbe rimanere, come mezzo di scambio comune europeo, ma essere affiancato da monete nazionali. O meglio ancora, da monete regionali. Il cambio con l’Euro tornerebbe ad essere stabilito nello specifico per ogni valuta nazionale. Cosí come si fa oggi col Dollaro, ad esempio.
Inoltre sono convinto che servano piú e piú monete locali. Lo scambio tra monete locali e nazionali sarebbe sempre 1 a 1, ma queste servirebbero a favorire l’economia locale, a riportarci con i piedi per terra e a far sí che tutti gli ingranaggi del sistema si muovano, e non solo quelli trainanti. E servirebbe a  creare sacche di resilienza, cioé quella capacitá di un sistema di resistere agli urti, ai traumi. A creare attorno ad ogni realtá locale quell’insieme di attivitá produttive fondamentali (alimentazione, energia, casa, lavoro) per assicurare il suo corretto funzionamento, indipendentemente da eventi esterni ad essa.

Ma soprattutto, soprattutto, che la moneta torni ad essere emessa liberamente dallo Stato. O, al livello che si voglia, dalla pubblica amministrazione. Basta con l’emissione privata di moneta a debito. Basta con l’imperialismo della finanza. Basta con il potere privato delle banche internazionali. Basta con l’indebitamento e la schiavitú di intere popolazioni. Basta con la speculazione. Basta con l’FMI, la Banca Mondiale e ora pure l’ESM. Basta con l’usura e il ricatto legalizzato. Quella é la vera cosa da cambiare. E quella si puó cambiare solo localizzando l’emissione di moneta e facendola tornare in mano pubblica. Adeguandola alla realtá produttiva e all’economia locale. Per emetterla quando serve, favorendo attivitá produttive utili alla comunitá e controllando cosí l’inflazione. E scordarsi del debito pubblico. Che tornerebbe letteralmente a significare qualcosa che noi dobbiamo a noi. Pari e patta, grazie.



UN'EUROPA PER IL MONDO INTERO

Io credo nell’Europa. Credo che sia un modello di sviluppo positivo e che si debba differenziare ulteriormente dal resto di quello che vediamo sulla scena mondiale. Imperialismo cannibale mascherato da libero mercato mascherato da sogno americano, e dittatura mascherata da capitalismo di stato mascherato da comunismo cinese. Fuori, ne abbiamo avuto abbastanza.
É ora di dare spazio a un modello di sviluppo che riconosca il valore dell’uomo, prima di ogni altra cosa. Che sia per davvero uno sviluppo sostenibile. Che punti sull’indipendenza energetica, sulla salvaguardia delle risorse naturali, sul rispetto dei diritti umani, sull’educazione e la sanitá pubblica e di qualitá, sul libero accesso e sulla conservazione della cultura in tutte le sue manifestazioni, sull’innovazione scientifico-tecnologica, sul lavoro come strumento di realizzazione personale e non schiavitú. Un modello che punti sulla cooperazione del diverso, invece che sull’appiattimento e l’unificazione.

Io credo che l’Europa debba essere questo. Credo che l’Europa possa essere questo e che in parte giá oggi lo sia. Credo che un sistema del genere, a volerlo tutti per davvero, possa funzionare. E allora l’Europa sarebbe il modello da seguire per tutti. Un modello non imposto e che non impone soluzioni, ma che suggerisce un metodo con l’esempio. Metodo che si adatterebbe poi necessariamente alla specificitá locale. Esaltandola invece che appiattirla. E il mondo intero ne beneficerebbe, arricchendosi invece che impoverendosi continuamente.





Ma anche qui, come sempre, il discorso é deviato, esacerbato, ideologicizzato. Posizioni estreme e partitiche. Gioco ben noto che conviene a qualcuno. Svegliamoci...

...non esiste solo bianco o nero, esiste quello che vogliamo,
in tutte le sue possibili sfumature...

...ragioniamo sul cuore della questione
e andiamo al di lá del problema contingente...

...immaginiamo il nostro mondo, il migliore dei mondi possibili...

...se non si danno le cause per il sorgere di un problema,
non dovremo cercarvi poi una soluzione





domenica 13 maggio 2012

Soffia, di nuovo, un vento nuovo


Piú o meno un anno fa, il 15 maggio 2011, si levó spontaneo, limpido e incontrollabile un vento nuovo nella nostro mondo di tutti i giorni. Un vento di non conformismo. Un vento di implicazione in prima persona. Un vento di ribellione intelligente e informata. Un vento di svolta. Si levó da Madrid, dove in Porta del Sole inizió a confluire un sacco di gente spontaneamente, per affermare pubblicamente il proprio sdegno e la propria non conformitá nei confronti di un sistema e di una classe politica non li rappresentava. Quella stessa classe politica che stava cercando, con l’ennesima farsa, quel consenso popolare che gli serviva per essere rieletti nelle elezioni amministrative che si sarebbero svolte di lí a una settimana. Ci riuscí, come sempre.
La cosa nuova di quel 15 maggio 2011 é che, appunto, una marea di gente scese in piazza. Si voleva riappropriare dello spazio pubblico che le appartiene, della sua individualitá di persona che non si sente rappresentata e vuole farlo sapere, del proprio diritto a partecipare a quel processo di miglioramento della societá nella quale si vive. E fu allora che successe qualcosa di magico: si rese conto che non era sola. Non solo, ma che erano migliaia e migliaia le persone mosse da quello stesso sentimento. Non gli si poteva non dare ascolto. Fu una presa di coscienza travolgente, di quelle che ti danno l’impressione che – se davvero é cosí, se davvero siamo tanti – tutto puó succedere.



Fu una presa di coscienza individuale prima, intima e profonda. Quella che ti spinge a uscire di casa, a dire che no, non si puó piú accettare, che la misura é colma. A pensare che é ora di fare qualcosa, qualsiasi cosa. E soprattutto a sentire che va bene, magari non cambierá nulla, ma che non contino su di me. Che non sperino di fregarmi ancora una volta, con me hanno chiuso. Per me sono finiti, che lo sappiano.
Fu una presa di coscienza collettiva, poi. Come movimento popolare, cioé fatto di persone. Ognuna col proprio diritto a dire la sua e la propria testa per pensare. Ma con tanto in comune da poter parlare con una voce sola. E voce sopra voce il coro assumeva dimensioni incredibili e una potenza tale da non poter essere ignorato. L’unione fa la forza, mai piú vero che in questo caso. Ma fu anche la dimostrazione palese che la diversitá é ricchezza. La diversitá di un movimento eterogeneo e fermamente motivato. E si sa, con la motivazione si muovono le montagne.

Quello che va capito per capire la grandezza di quello che successe quel 15 maggio 2011 (o, meglio detto, di quello che inizió a rendersi esplicito su vasta scala), é che si trattava di gente comune. Gente comune che di problemi non ne voleva e non ne cercava, ma voleva solo riappropriarsi di ció che é suo: il diritto a contribuire a migliorare il proprio futuro. Per la stragrande maggioranza non si trattava di professionisti delle manifestazioni o di gente manipolata da questo o quell’interesse. Gente di ogni estrazione sociale e provenienza. Per la prima volta si trovarono a marciare fianco a fianco i nonni, i padri e i nipoti, i professionisti e gli studenti di questo e di quello, immigrati e nativi.
La molla era la non conformitá con un sistema che prima ancora di rubare il futuro delle persone, ne uccide il presente. Un sistema che vive sulle spalle della gente umile per sostenere gli stili di vita insostenibili dei pochi nelle cui mani si accumula tutta la ricchezza del mondo intero. Un sistema che si autoperpetua evitando qualsiasi reale cambiamento, prendendoci per di piú in giro con la farsa della democrazia rappresentativa. Un sistema che assieme alle persone distrugge il pianeta in cui viviamo.
La gente disse basta. E lo disse ad alta voce e in coro. Impossibile non sentirsi coinvolti. Impossibile ignorarla. Impossibile non vedere un prima e un dopo il 15 maggio 2011. Da quel giorno la protesta fu virale e quotidiana. Si diffuse in tutto il mondo. Pacifica, puntuale, mirata e sempre informata. Da quel giorno nacque il movimento 15M, degli indignati, di quelli che sono stufi di piegarsi e dicono che puó bastare cosí, ci riprendiamo in mano le nostre vite grazie.



C’é tanta demagogia attorno a questo movimento, come sempre. La veritá é che chi controlla i mezzi di comunicazione attraverso i quali ci arrivano le notizie non ha alcun interesse a presentarlo come altro che non sia l’ennesima, simpatica, inconcludente, protesta cittadina. Ben organizzata sí, materiale da poterci scrivere qualche bell’articolo pieno di populismo e frasi fatte. Qualche servizio colorato pieno di cori e slogan e striscioni simpatici. Ma poi basta. Vedrete, si diceva, svanirá presto. Alle elezioni si voterá come sempre, e quelli governeranno come sempre. E non cambierá nulla e arrivará un altro 15M un giorno. La gente rimase nelle piazze per piú di un mese, fino a che la polizia (tutt’altro che pacificamente) svuotó le piazze e mandó via tutti. Ecco qua, come non detto. Svanito nel nulla il 15M, l’indignazione e tutto quanto.

Quello che non si racconta peró, é che nel frattempo in quelle stesse piazze si parlava, si discuteva, si proponeva e ci si confrontava sui quegli stessi temi che avevano spinto la gente a uscire dai propri gusci. Si erano create vere e proprie commissioni di lavoro a cui bastava un po’ di curiositá per partecipare a chiunque passasse per quella piazza. Curiositá per ascoltare e, ovviamente, interesse per cambiare le cose. Interesse e competenze per cambiarle, anche quelle ci si rese ben presto conto che non mancavano.
La vera rivoluzione é stata il cambio dello stato mentale. É stato il rendersi conto del non essere piú soli e del mare di possibilitá che si aprivano dinnanzi per riprendersi in mano il diritto di gestire le proprie vite.
E allora a guardarla bene la scintilla di quel giorno in realtá non é mai svanita, anche se nel frattempo quelle piazze sono tornate ad essere spazi sterili dedicati al commercio e alla non-vita cittadina. Chi ne é stato colpito l’ha portata con sé nella sua vita quotidiana e la mantiene ben viva nel proprio quartiere, continuando con le assemblee e gli incontri locali a discutere e ad approfondire i perché. E a proporre soluzioni e alternative. Quello che ben pochi dicono, é che spesso nel loro piccolo le riescono anche a mettere in pratica. E questa, signori miei, é la vera rivoluzione cominciata quel 15 maggio 2011. La rivoluzione della partecipazione attiva e diretta.

Riappropriazione dello spazio che ci appartiene. Le piazze, simbolo delle cittá, sono nate come punto di incontro. Per scambiare le idee, per crescere come societá. Non per vendere pallocini, souvenir o granturco da dare ai piccioni. Da quel giorno le piazze sono un po’ meno mero luogo di passaggio, crocevia tra le strade dove consumiamo e quelle che ci portano a lavorare. La piazza torna ad essere quel luogo dove ci si confronta e ci si riunisce. Ma é una piazza senza populismo, che quello non serve. Non é la piazza del “le piazze chiedono”. Non é folla massificata e informe. É una miriade di persone civili. É la piazza della gente normale che é stufa e vuole dire la sua. E si rende conto all’improvviso che ha tanto da dire, e che non gli mancano certo le competenze per concorrere con i burocrati prezzolati che ci governano a nostre spese e rubandoci il consenso. La piazza é il simbolo che un’alternativa esiste ed é perfettamente possibile e attuabile. Oggi.

Riappropriazione della politica. Cioé della partecipazione a determinare il modo in cui gestire la cosa pubblica. Sanitá pubblica, educazione di qualitá, lavoro e non schivitú lavorativa, stato sociale, diritto ad una casa e una vita degna. Diritto alla realizzazione personale. La gente parla, discute, si interroga, ribatte, si confronta, propone, vota. Questo é il vero spirito di quelle giornate: democrazia vera e diretta.

Riappropriazione della comunicazione. In TV ci dicono quello che vogliono. Sui giornali piú o meno. Ma per fortuna la comunicazione non é piú unilaterale. C’é prima di tutto la piazza. Comunicazione diretta, faccia a faccia, come non se ne vedeva da tempo. E poi c’é internet con tutta la sua potenza innovativa e il mare di nuove possibilitá comunicative. Immediato, efficace, ramificato a tal punto da essere incontrollabile. Multilaterale, che rende ognuno comunicatore e recettore di comunicazione allo stesso tempo. E rende la questione virale: non puó piú essere ignorata.

Pazienza quindi quando le piazze principali si svuotano forzosamente. L’insegnamento di quei giorni resta e continua giorno dopo giorno in migliaia di gruppi di persone auto-organizzate che continuano a vivere nelle piazze minori o in quelle private o virtuali. Persone che restano lí, pronte a riunirsi di nuovo ogni volta che serva. Persone che si identificano con una causa non perché qualcuno glielo dice, ma perché lo sentono e ci credono personalmente e profondamente. Questo é quello che la gente non capisce quando pensa che tutto sia finito e allo stesso tempo la dimostrazione piú palese del fatto che le cose stiano iniziando a cambiare per davvero.



Tante volte si dice che il sistema bisogna cambiarlo dall’interno. In questo senso chi aspettava la formazione di un partito 15M o qualcosa del genere é rimasto deluso. I detrattori sono invece soddisfatti, affermando tronfi che c’era da aspettarselo che si sarebbe presto sgonfiato tutto. Cari signori, entrambi, temo non abbiate capito niente. Einstein diceva “non si puó risolvere un problema con la stessa mentalitá che l’ha generato”. E allora la politica e i partiti rimangano pure fuori. Ci si riunisce ognuno a titolo suo, responsabile di quello che dice in prima persona, in modo che ognuno sia costretto a pensare e criticamente ragionare. Non aspettiamo piú che il cambiamento arrivi dall’alto, perché sappiamo, abbiamo capito, che cosí non arriverá mai. Semplicemente perché a quelli in alto non conviene. Allora cambiamo strategia, cambiamo la prospettiva con cui guardiamo al problema e alla sua soluzione. Cambiamo il cambiamento. Il cambiamento ce lo prendiamo noi, direttamente, dal basso. Con gli strumenti che abbiamo noi formiche: lavorando. Fintanto che questo sistema oppressore e parassita che vive sulle nostre spalle diventi obsoleto e cada sotto il proprio peso.

Questa é l’idea, ma non guardiamo troppo lontano, rimaniamo concreti. CI concentriamo sul breve termine. Non creiamo artificiose impalcature sociali da cui possiamo solo aspettarci il fragore di quando cadranno davanti ai nostri occhi. Passo dopo passo, proviamo soluzioni nuove. La rivoluzione vera adesso come adesso é che il processo é giá in marcia e segue il suo percorso: ravvivare le menti e le coscienze critiche delle persone. Chi parlava tanto di speculazione finanziaria fino a 5 anni fa? Chi parlava di bolla immobiliaria? Chi aveva davvero coscienza del teatrino della politica e del potere? Chi sapeva come funziona il denaro, chi lo crea e chi lo gestisce? Chi parlava di debito? Chi aveva mai sentio parlare di queste cose 5 anni fa? Chi si confrontava quotidianamente su questi temi? La rivoluzione é che gente come me stia scrivendo di queste cose. É che gente come noi continui a leggere, che ne parli giorno dopo giorno, ne sia al corrente, si continui ad informare. Che sia chiaro ai governanti che sono sotto la nostra lente di ingrandimento ma non solo, che presto non ci serviranno piú.

Stiamo costruendo un sistema nuovo, non ci accontentiamo di aggiustare quello vecchio. Come? Come possiamo. Come sará? Non lo sappiamo ancora, ma sará diverso questo é certo. Per il fatto che sará per il bene di tutti e non per il bene di pochi, perché tutti perteciperemo. Sará democratico per davvero. Sará a rete, sará collegato al mondo reale.

A distanza di un anno da quel giorno la marea di gente é tornata ieri a riunirsi, a riappropriarsi delle piazze e delle strade. Tanti di quelli che li credevano morti solo perché tornati invisibili ai loro occhi sono caduti dalle nuvole. Noi sapevamo di continuare ad essere tanti, sempre di piú. E continueremo ad aumentare. Perché

prima ti ignorano,
poi ti deridono,
poi ti combattono,
poi vinci.



Anche questa volta succederá proprio cosí.






venerdì 4 maggio 2012

...e il progresso, dov’é?


Bella domanda. Forse una di quelle domande destinate a restare senza risposta. Non perché non si provi a rispondere, ma perché a ben vedere una risposta – forse – non c’é.
C’é, appunto, la domanda. Ed é quello che serve, ed é quello che basta.



PREMESSA

Viviamo il tempo della modernitá a basso costo. Dell’immediatezza, dell’efficienza, della tecnologia e della comunicazione in un click. Quello di cui non resta piú molto, in questo tempo, é magia. É l’incanto delle piccole cose, svanito lentamente e inesorabilmente. Tutto si vede e si legge in ottica utilitaristica. Il fluire del tempo stesso é visto perlopiú in base a quello che si puó fare, con quel tempo. Il tempo ha un prezzo, e il prezzo é qualcosa che serve a etichettare qualcosa che si puó comprare e vendere.

Ma qui sorge un’altra domanda, ben piú generale ma, a ben guardare, un po’ la stessa. Qual é il senso della vita. É quello che facciamo? É quello che lasciamo dietro di noi, in ereditá ai nostri figli e alle generazioni future? É quello per cui saremo ricordati? E qual é l’estensione della cerchia che questo nostro senso della vita potrá raggiungere allora? Le persone che ci hanno conosciuto in vita, forse, si ricorderanno di noi. Almeno per un po’. Ma state pur certi, per quanto grandiosa la vostra vita possa essere, passata qualche generazione il vostro ricordo si perderá tra le migliaia di fila srotolate e aggrovigliate di nuovo sul tappeto della storia. Qualcuno magari finirá su qualche libro. Nella cyber-era che ci apprestiamo a vivere magari la notorietá ce la dará internet, laddove lo spazio non importa piú e allora ci sará un posticino per tutti. E sará, allora, la piú squallida forma di anonimato, in cui tutti – tutti – potranno avere materiale che li riguarda lí, indelebile pubblicato sull’etere e a disposizione delle generazioni future. Un ricordo indelebile e anonimo. Inghiottito dalla vastitá dell’etere stesso.



E ALLORA?

E allora, e a maggior ragione, continuo a chiedermi  “qual é il vero scopo di quello che facciamo”? La domanda, molto piú prosaica di quanto possa sembrare, nasce dall’esigenza concreta di sapere, realmente, a che serve. Perché dovrei – io insignificante – dannarmi per cercare di cambiare le cose. O meglio, di migliorarle. Giá, migliorarle, eccoci di nuovo al progresso. Di che si parla quando si parla di progresso? Il progresso é la continua aspirazione della razza umana a cercare di vivere meglio. Hmmm, no. Non proprio. Detto meglio “é l’aspirazione al miglioramento della condizione umana”. E allora direi che la mia voglia di migliorare le cose ha a che vedere con il progresso. Bene, primo punto.

Peró continuo a chiedermi, su cosa ci basiamo per dire che il progresso é progresso? Se é vero che ognuno di noi pensa con la propria testa (...) allora ognuno vedrá anche un qualsiasi miglioramento in modo diverso. E quindi il progresso.
Il fatto é che – evidentemente e al pari di tante altre cose – questa nostra societá cosí evoluta e cosí moderna sta appiattendo anche le nostre menti. Al pari di qualsiasi altra forma di diversitá. Diversitá che non viene piú riconosciuta come ricchezza ma come – in definitiva – un fastidio generico. Diversitá che viene necessariamente livellata secondo criteri e programmi ufficiali. Il progresso, oramai, é necessariamente unico, improntato ai criteri della moderna societá occidentale. Quella consumistica e capitalistica eccetera... oggi lasciamo perdere queste cose che tanto le sappiamo. Mi voglio solo concentrare sul “siamo davvero convinti, noi occidentali, di vivere meglio”? Siamo cosí convinti che questo modello significhi davvero progresso? Parlo del modello occidentale in sé, nella sua versione piú idealistica e pura e senza considerare quelle degenerazioni che, in ogni caso, abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni. Esiste IL progresso? Ne davvero siamo talmente convinti da poterci rinchiudere in questa nostra fede, ciecamente (come fin troppo spesso accade) e in modo da non vedere nient’altro della ricchezza che pur ci circonda? Come i colonizzatori imposero la nostra religione e il nostro stile di vita, come gli eserciti ora impongono la nostra democrazia, come i supermercati impongono le solite quattro marche, come le grandi imprese impongono certi modelli di produzione, come la tv ci impone certi programmi, come la scuola ci impone di studiare certe cose... dov’é finita la scelta? Questo progresso imposto é davvero quello che vogliamo?



IL PROGRESSO SECONDO IO

Basta domande, ora bisogna capire. Capire che non c’é cosa che ci arrichisce di piú se non la diversitá e la curiositá di esplorare, di capire il diverso. Ognuno e individualmente. Personalmente e soggettivamente. Ognuno, avendone la possibilitá, vede il progresso alla sua maniera. Per me, progresso significa che ognuno dovrebbe avere la possibilitá di arricchirsi, durante la sua vita, della vita stessa. Credo che il vero senso della vita sia proprio vivere. Sia camminare per il camminare, non per l’arrivare. Il viaggio é la destinazione. Credo che la vita serva per imparare cos’é la vita, in tutte le sue sfumature. Apprezzarne la varietá e lasciarsi sopraffare dalla sua grandezza, che mai riusciremo a cogliere del tutto. Ma nonostante questo, provarci! Ogni giorno di piú. Credo che é questo quello che mi muove, oggi. A volte mi sento atterrato da questo tensione auto-imposta al conoscere, conoscere, conoscere... ma poi ricordo del perché, un giorno, arrivó: lo sentivo necessario. A volte significa non vederne la fine e, quindi, lo scopo. A volte significa chiedersi “Ma perché”? Momenti in cui smarrisci il senso di quello che fai. Eppure passano. Residui di una mente utilitaristica che spero di assottigliare sempre piú. E impari, anche da quelli, come da tutto.

In definitiva credo che il progresso sia uno stato mentale. Credo che sia uno stato mentale che dovremmo diffondere sempre piú. Uno stato mentale positivo e inquieto, che spinge ad alzarsi felici ogni giorno perché quello che sta per accadere é davvero irrepetibile. Cosa imparerai oggi? Quali fili stai per unire che ancora non sai? In che forma ti arricchirai oggi? Non c’é niente di frustrante nel non vederne la fine, una volta che capisci che la fine non c’é. Allora é il percorso stesso che importa. E l’importanza tornano ad averla i sempre di piú compagni di viaggio, troppo spesso dimenticati. Ancora piú che i resoconti dei posteri.
Ci si sente leggeri perché, si sa, a camminare continuamente non ti puoi portare dietro piú di quelle quattro cose che davvero ti servono. La ricchezza non é materiale, sta su un’altra dimensione e te la puoi sempre portare dietro.
Progresso é il recuperare la bellezza di una vita semplice, lo spogliarsi di tutte quelle costrizioni fastidiose che ci hanno messo addosso sin da piccoli, con la scuola, la chiesa, il lavoro e la responsabilitá di che? La responsabilitá di ognuno é quella di seminare il meglio che puó, perché dei frutti che nascono ne possano beneficiare tutti quanti, no? La responsabilitá di ognuno é migliorare le cose, quindi prima di tutto migliorare sé stessi.

Il progresso... strano, ma non sembra esistere una cosa simile nel resto del regno animale. Tante volte guardando quella meraviglia che sono i cani (a me sembra sempre che siano felici e sorridenti), ti chiedi “ma cos’é che li rende cosí felici, se altro non fanno che ripetere le stesse cose tutti i giorni e, in fin dei conti, passano la loro vita standosene buoni in casa o dove li mettiamo noi”? E la stessa cosa mi chiedo quando guardo i documentari sugli animali selvatici... tante storie per – alla fine – nascere, trovare qualcosa da mangiare ogni santo giorno per arrivare a riprodursi e poi, un giorno, morire. La conservazione della specie, mi si dirá. Giá, ma il senso della loro vita – individualmente parlando – dov’é? Esiste?
Nel modo in cui la intendiamo noi, oggi, no. Ma io credo che forse dovremmo imparare da loro, perché c’é un grande senso della vita in quella routine. Al pari di quella che c’é nei cosiddetti “paesi del terzo mondo” dove non c’é scuola, educazione, istituzioni, lavoro etc. Eppure i bambini crescono e imparano. Imparano quello che gli serve e diventano uomini. Al pari nostro. Non dovremmo poi sentirci tanto superiori, ma rispettare questa diversitá. Contestualizzarla, certo, ma rispettarla. Perfino imparare da essa, giacché ha tanto da insegnarci.



Lasciamoci affascinare dalla diversitá, rimaniamo affamati di conoscenza.



Imparare a vivere é la cosa piú vicina al progresso che finora sono riuscito a trovare.