domenica 16 febbraio 2014

Le parole sono importanti

C’è una regola d’oro a cui tutti dovremmo cercare di non venire a meno: stare in silenzio quando non abbiamo nulla da dire che non possa interessare i nostri interlocutori.

Parliamo di comunicazione. Comunicazione di qualsiasi tipo in qualsiasi forma: stiamo parlando di un binario a doppio scambio. C’è qualcuno che vuole condividere qualcosa, ma per farlo deve anche trovare qualcuno disposto ad accogliere il messaggio. Come succede in un sistema antenna-ricevitore: la comunicazione, lo scambio di informazioni, non avviene se manca uno dei due. Purtroppo ultimamente ce ne dimentichiamo spesso. E allora parlare, scrivere, fare foto, disegnare, danzare o qualsiasi altro mezzo si scelga di usare perde la sua funzione comunicativa. Non è più veicolo di un messaggio, non porta informazioni a qualcun altro. Rimane semplicemente una forma di espressione di sé stessi. Non che non sia utile, anzi. L’espressione di quello che si ha dentro, anche quando non si trova nessuno disposto ad ascoltare, è una necessità di chiunque e ci ha spesso regalato alcuni dei capolavori più grandi della storia dell’arte. Senza dar sfogo alla necessità di esprimere noi stessi il mondo sarebbe piatto, freddo, grigio. La necessità di espressione personale non solo è fonte di arte, ma anche di innovazione e di progresso. È quella cosa che ci fa stare al passo coi tempi e rende ogni periodo storico un argomento a sé, degno di essere studiato e approfondito. L’espressione di sé diventa in questo modo, essa stessa, una forma di comunicazione del proprio tempo, ma allo stesso modo da forma al proprio tempo.

Quando però l’espressione di sé perde il fuoco che le impone di uscire fuori, quando non viene prima digerita a dovere per trovare la forma che meglio le si adatta, quando diventa puramente auto-celebrativa e immediata, ripetitiva, istantanea, sterile e usa-e-getta... allora credo che abbiamo qualche problema. Perché significa che tutti parliamo, e di continuo, ma nessuno ascolta. E in questo modo, penso davvero che faremmo tutti meglio a stare zitti. Il messaggio, in ogni caso, non arriva. Risparmieremmo energie e, probabilmente quello che è più importante, la delusione di non essere ascoltati o capiti. Di non ricevere l’attenzione di cui abbiamo bisogno.

Cosa pretendo di fare allora mentre sto scrivendo? Lo stesso che mi propongo di fare quando parlo con qualcuno. Condividere un qualcosa – sentimenti, emozioni, informazioni, opinioni, dati – che ritengo importanti per entrambi. Non solo per me, altrimenti che senso avrebbe comunicarle a qualcun altro? Basterebbe parlare di fronte a uno specchio. Sarebbe un nutrirsi di visibilità per soddisfare il proprio ego. Nulla di tutto ciò. Faccio quello che faccio perché (a torto o ragione) lo ritengo importante. Penso che tutto questo possa avere una funzione, sia di una qualche utilità anche per chi legge. Per i contenuti che veicolo e le informazioni che condivido, certo. Ma anche perché prendendomi la briga di farlo in prima persona ciò mi permette di avere una funzione sociale, un qualcosa che va al di fuori della mia individualità. Ma affinché tutto questo sia possibile, le informazioni che condivido devono avere un valore anche per l’ascoltatore. Devono essere utili anche al lettore. Devono riuscire a spronarlo in qualche modo, devono farlo riflettere, devono aiutarlo conoscere cose che prima ignorava.

Uso volutamente il termine condividere e non dare. Dare un informazione presuppone l’esserne il depositario unico e generare un flusso unidirezionale. In tutta onestà non penso che questo possa essere possibile, per nessuno. Condivisione significa sentirsi allo stesso tempo antenna e ricevitore di un qualcosa che sappiamo non essere statico, ma in continua evoluzione: la conoscenza/coscienza. Condividerla assume quindi il significato di prendersi per mano e dire “so che abbiamo un cammino infinito che ci aspetta davanti, e che probabilmente quello che ti dico oggi non varrà più domani. Ma nonostante tutto penso che valga la pena iniziare a farlo assieme, imparare l’uno dall’altro ad arricchirci delle nostre reciproche esperienze. Quando poi si riveleranno obsolete, le aggiorneremo, le miglioreremo”. Ancora una volta è il metodo quello che conta. Il modo in cui lo si fa.

Comunicare è un esigenza naturale delle persone, che nasce dal bisogno di fare comunità, di vivere in società, assieme. Di condividere. Informazioni importanti alla sopravvivenza del gruppo, ad esempio. L’espressione di sé stessi è anch’essa un qualcosa di innato e importante. Spesso, ma non sempre, queste due cose si incrociano. Ma non sono la stessa cosa.




Oggi i social network e internet ci mettono di fronte alla continua e costante ostentazione del proprio ego, resa possibile alla velocità di un click. Espressione immediata che si pretende spesso ammantata di un arte che non possiede. Semplicemente, non ne ha avuto il tempo. L’arte, l’espressione profonda di sè stessi, richiede anche il tempo della riflessione, dell’interiorizzazione e dell’affinamento della tecnica. Il mondo cibernetico che viaggia alla velocità della luce non ce lo permette. Per cui ci troviamo sempre piú spesso a trangugiare bulimicamente bit di informazione frammentata e sporadica. Informazione che spesso non ha l’obbiettivo di comunicare qualcosa, non le interessa sapere se stiamo o no ascoltando. Le basta specchiarsi ed uscire dai polpastrelli delle dita. Le basta contare i pollici all’insù e le visualizzazioni. A tanto siamo arrivati, a contare quantità delle reazioni e non più qualità delle interazioni.

È un informazione non richiesta, che nasce e muore immediatamente, che non arreca nessuna utilità a chi ne fruisce. È un informazione sterile e noiosa, autocelebrativa e vanitosa, standard e dozzinale. Tutti ne siamo capaci eppure ci sentiamo sempre gli unici, i migliori, i più importanti. Datemi i miei 5 minuti di celebrità, datemi la mia dose di visibilità. Lasciatemi usare quella parola che ho appena imparato e che fa tanto cool. Mi rifiuto di considerare tutto questo una forma di espressione. È solo un disperato bisogno di attenzione, piuttosto faremmo bene a chiederci il perché di tutto questo.

A maggior ragione, non ha niente a che vedere con la comunicazione. Se non mi stai dicendo qualcosa che serve anche a me, non c’è condivisione, non c’è comunicazione. Se stai parlando da solo, il tuo messaggio non troverà la strada per arrivare a me. Se non mi stai offrendo l’opportunità di arricchirmi in qualche modo, non mi interessa grazie. Non è snobismo, è ricordarsi del significato delle parole. Le parole sono importanti. La manipolazione, il lavaggio del cervello spesso partono proprio dall’usare le parole in un contesto in cui non c’entrano niente.

Comunicare oggi lo fanno davvero in pochi. Quello che vedo sempre più, tristemente anche nelle conversazioni private, è l’autocelebrazione dell’ego. Avanti così, se vi pare. A me non interessa.


Piuttosto, me ne sto zitto.