C’è una regola d’oro a cui tutti dovremmo cercare di non venire a meno: stare in silenzio
quando non abbiamo nulla da dire che non possa interessare i nostri interlocutori.
Parliamo di comunicazione. Comunicazione di qualsiasi tipo in qualsiasi forma:
stiamo parlando di un binario a doppio scambio. C’è qualcuno che vuole
condividere qualcosa, ma per farlo deve anche trovare qualcuno disposto ad
accogliere il messaggio. Come succede in un sistema antenna-ricevitore: la
comunicazione, lo scambio di informazioni, non avviene se manca uno dei due. Purtroppo
ultimamente ce ne dimentichiamo spesso. E allora parlare, scrivere, fare foto, disegnare,
danzare o qualsiasi altro mezzo si scelga di usare perde la sua funzione
comunicativa. Non è più veicolo di un messaggio, non porta informazioni a
qualcun altro. Rimane semplicemente una forma di espressione di sé stessi. Non che non sia utile, anzi. L’espressione
di quello che si ha dentro, anche quando non si trova nessuno disposto ad
ascoltare, è una necessità di chiunque e ci ha spesso regalato alcuni dei
capolavori più grandi della storia dell’arte. Senza dar sfogo alla necessità di
esprimere noi stessi il mondo sarebbe piatto, freddo, grigio. La necessità di
espressione personale non solo è fonte di arte, ma anche di innovazione e di
progresso. È quella cosa che ci fa stare al passo coi tempi e rende ogni periodo
storico un argomento a sé, degno di essere studiato e approfondito. L’espressione
di sé diventa in questo modo, essa stessa, una forma di comunicazione del
proprio tempo, ma allo stesso modo da forma al proprio tempo.
Quando però l’espressione di sé perde
il fuoco che le impone di uscire fuori, quando non viene prima digerita a
dovere per trovare la forma che meglio le si adatta, quando diventa puramente
auto-celebrativa e immediata, ripetitiva, istantanea, sterile e usa-e-getta...
allora credo che abbiamo qualche problema. Perché significa che tutti parliamo,
e di continuo, ma nessuno ascolta. E in questo modo, penso davvero che faremmo
tutti meglio a stare zitti. Il messaggio, in ogni caso, non arriva.
Risparmieremmo energie e, probabilmente quello che è più importante, la
delusione di non essere ascoltati o capiti. Di non ricevere l’attenzione di cui
abbiamo bisogno.
Cosa pretendo di fare allora mentre
sto scrivendo? Lo stesso che mi propongo di fare quando parlo con qualcuno.
Condividere un qualcosa – sentimenti, emozioni, informazioni, opinioni, dati –
che ritengo importanti per entrambi. Non solo per me, altrimenti che senso
avrebbe comunicarle a qualcun altro? Basterebbe parlare di fronte a uno
specchio. Sarebbe un nutrirsi di visibilità
per soddisfare il proprio ego. Nulla di tutto ciò. Faccio quello che faccio
perché (a torto o ragione) lo ritengo importante. Penso che tutto questo possa avere una funzione, sia di una qualche
utilità anche per chi legge. Per i contenuti che veicolo e le informazioni che
condivido, certo. Ma anche perché prendendomi la briga di farlo in prima
persona ciò mi permette di avere una funzione sociale, un qualcosa che va al di
fuori della mia individualità. Ma affinché tutto questo sia possibile, le
informazioni che condivido devono avere un valore anche per l’ascoltatore. Devono
essere utili anche al lettore.
Devono riuscire a spronarlo in qualche modo, devono farlo riflettere, devono
aiutarlo conoscere cose che prima ignorava.
Uso volutamente il termine condividere
e non dare. Dare un informazione presuppone l’esserne il depositario unico e
generare un flusso unidirezionale. In tutta onestà non penso che questo possa
essere possibile, per nessuno. Condivisione
significa sentirsi allo stesso tempo antenna e ricevitore di un qualcosa che
sappiamo non essere statico, ma in continua evoluzione: la conoscenza/coscienza.
Condividerla assume quindi il significato di prendersi per mano e dire “so che
abbiamo un cammino infinito che ci aspetta davanti, e che probabilmente quello
che ti dico oggi non varrà più domani. Ma nonostante tutto penso che valga la
pena iniziare a farlo assieme, imparare l’uno dall’altro ad arricchirci delle
nostre reciproche esperienze. Quando poi si riveleranno obsolete, le
aggiorneremo, le miglioreremo”. Ancora una volta è il metodo quello che conta. Il modo in cui lo si fa.
Comunicare è un esigenza naturale
delle persone, che nasce dal bisogno di fare comunità, di vivere in società,
assieme. Di condividere. Informazioni importanti alla sopravvivenza del gruppo,
ad esempio. L’espressione di sé stessi è anch’essa un qualcosa di innato e
importante. Spesso, ma non sempre, queste due cose si incrociano. Ma non sono
la stessa cosa.
Oggi i social network e internet
ci mettono di fronte alla continua e costante ostentazione del proprio ego,
resa possibile alla velocità di un click. Espressione immediata che si pretende
spesso ammantata di un arte che non possiede. Semplicemente, non ne ha avuto il
tempo. L’arte, l’espressione profonda di sè stessi, richiede anche il tempo
della riflessione, dell’interiorizzazione e dell’affinamento della tecnica. Il
mondo cibernetico che viaggia alla velocità della luce non ce lo permette. Per
cui ci troviamo sempre piú spesso a trangugiare bulimicamente bit di
informazione frammentata e sporadica. Informazione che spesso non ha l’obbiettivo
di comunicare qualcosa, non le interessa sapere se stiamo o no ascoltando. Le
basta specchiarsi ed uscire dai polpastrelli delle dita. Le basta contare i
pollici all’insù e le visualizzazioni. A tanto siamo arrivati, a contare quantità delle reazioni e non più
qualità delle interazioni.
È un informazione non richiesta, che
nasce e muore immediatamente, che non arreca nessuna utilità a chi ne fruisce.
È un informazione sterile e noiosa, autocelebrativa e vanitosa, standard e
dozzinale. Tutti ne siamo capaci eppure ci sentiamo sempre gli unici, i
migliori, i più importanti. Datemi i miei 5 minuti di celebrità, datemi la mia
dose di visibilità. Lasciatemi usare quella parola che ho appena imparato e che
fa tanto cool. Mi rifiuto di considerare tutto questo una forma di
espressione. È solo un disperato bisogno di attenzione, piuttosto faremmo bene a
chiederci il perché di tutto questo.
A maggior ragione, non ha niente
a che vedere con la comunicazione. Se non mi stai dicendo qualcosa che serve
anche a me, non c’è condivisione, non c’è comunicazione. Se stai parlando da
solo, il tuo messaggio non troverà la strada per arrivare a me. Se non mi stai offrendo
l’opportunità di arricchirmi in qualche modo, non mi interessa grazie. Non è
snobismo, è ricordarsi del significato delle parole. Le parole sono importanti.
La manipolazione, il lavaggio del cervello spesso partono proprio dall’usare le
parole in un contesto in cui non c’entrano niente.
Comunicare oggi lo fanno davvero
in pochi. Quello che vedo sempre più, tristemente anche nelle conversazioni private,
è l’autocelebrazione dell’ego. Avanti così, se vi pare. A me non interessa.
Piuttosto, me ne sto zitto.
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