mercoledì 2 novembre 2011

Imagine


Partiamo dalla matematica. In matematica ci sono delle cose che si chiamano assiomi. Sono certe cose che non puoi spiegare, che puoi solo assumere come vere. Non si tratta di fede, attenzione, il concetto é ben diverso. Fede si ha nei confronti di qualcosa che riteniamo vero, qualcosa che pensiamo – crediamo – esista davvero. Non si ha fede negli assiomi. Gli assiomi sono uno strumento creato dall’ingegno umano, e non esistono da nessuna parte. Si tratta semplicemente di fondamenta che necessariamente dobbiamo assumere per potervi costruire sopra tutto il resto. Tutta la cattedrale della matematica. Tutto il resto si può poi dimostrare, attraverso l’uso di elementi logici più semplici e intuitivi. Gli assiomi no. Si arriva a un punto in cui la nostra mente non va più oltre; probabilmente é dovuto all’estrema astrazione raggiunta, che si scontra con quello che le nostre percezioni possono offrirci. Si arriva ad un punto in cui bisogna fermarsi e dire “ok, questo é così e basta”.

Credo sia importante sottolineare che tutti quelli che si occupano di queste cose sono bene al corrente che si tratta di una specie di contratto. La matematica é un linguaggio creato dall’uomo, un sistema vero e proprio, con lo scopo di descrivere (forse a volte perfino di spiegare) quello che ci succede attorno in maniera univoca e precisa. Perché possa funzionare comunque, dobbiamo pur partire da qualche parte. Ed ecco il contratto. Si parte dagli assiomi, e da lì sviluppiamo il nostro sistema. Ma abbiamo perfettamente presente, ad  ogni momento, che le regole del gioco le abbiamo stabilite noi, più o meno a ragion veduta e tutto sommato arbitrariamente. Sappiamo cioè che non é l’unico sistema possibile, nonché che probabilmente non é il migliore. È la base stessa della scienza, il metodo scientifico. Dimostrami che sbaglio e sarò felice di cambiare idea.

Per quel che ne so, la nostra geometria, che potemmo definire come la maniera in cui interpretiamo lo spazio e le forme, si basa su 5 assiomi fondamentali, detti postulati di Euclide. Si tratta di tutte cose di senso comune, osservabili ogni giorno. Il quinto dice:

“per un punto passa una e una sola parallela a una retta data”

Pensateci. Bella scoperta, si sa che é così. È logico, talmente tanto da renderlo scontato, quasi banale. Eh no. È una banalità perché ci siamo letteralmente nati e cresciuti dentro. È il modo in cui interpretiamo lo spazio. Non riusciamo proprio ad immaginare un mondo al di fuori di questa semplice regola, eppure esiste. Esistono diverse geometrie dette non euclidee in cui questo postulato non é valido. Si tratta allo stesso modo di sistemi creati dall’uomo, forse meno immediata comprensione, ma comunque ugualmente validi e con mille applicazioni pratiche. È completamente al di fuori dal mio scopo dilungarmi di più su questioni geometriche, ma mi serviva per spiegare nella maniera più scientifica possibile una cosa di cui spesso ci dimentichiamo:

Abbiamo bisogno di convenzioni. Tutta la nostra società si basa su convenzioni create dall’uomo stesso. Se ci fermiamo a pensare un momento le possiamo vedere dappertutto. Nella scienza, nel linguaggio, nella società. Sono ovunque. Sono compromessi necessari ad assicurare il buon funzionamento di comunità composte da più individui. Servono ad esempio a favorire l’evoluzione della nostra conoscenza; o la sopravvivenza; o il benessere.
Cosa c’é di interessante in tutto ciò? Beh, la cosa curiosa é che c’é una marea di convenzioni che non vediamo. Sono quelle in cui siamo nati e con cui ci hanno educati, in cui siamo cresciuti. Sono quelle che ci accompagnano da sempre. La particolarità che le accomuna é che le diamo per scontate. La conseguenza é che abbiamo smesso (o forse non abbiamo mai nemmeno incominciato) di domandarci

esiste una alternativa?

Esiste una alternativa? E se si, conviene prenderla in considerazione?
Credo sia importante considerare che ogni convenzione ha il suo perché. O per lo meno ogni convenzione lo ha avuto, almeno in un certo momento storico. Qualche altro esempio:

Normalmente non viene in mente a nessuno di andare in giro nudo per strada. Per la verità in più di un’occasione mi è capitato di vedere qualcuno farlo (e nel farlo di goderne abbastanza), ma in genere la gente quando esce di casa si veste. Ok, dato di fatto. Partiamo da qui, chiediamoci il perché. Una risposta che si può trovare é che sin dai tempi del paleolitico, o qualcosa del genere, i nostri antenati hanno dovuto coprirsi per sopravvivere meglio alle avverse condizioni atmosferiche. Col passare del tempo la cosa si è diffusa talmente tanto che è diventato un fattore sociale, ossia un fattore comunemente accettato che sta alla base di una società. È scontato, tanto che ormai il nudismo é spesso condannato o persino vietato. È curioso come le immagini che ci arrivano di societá in cui la gente vive più o meno svestita siano relative a tribù indigene in Africa o in Amazzonia. Non propriamente climi in cui ci si debba proteggere dal freddo.

Un ultimo esempio, forse più controverso. Chi ha detto che sia da condannare chi non vuole lavorare? Potremmo dire che il lavoro sta alla base della nostra societá. È il mezzo in cui ci procuriamo la possibilità di garantire il nostro sostentamento. È una specie di contratto sociale. Se non lavori non hai soldi, se non hai soldi non puoi mangiare, non avrai un posto per vivere, finirai per non far parte della societá in quanto tale. Non solo, ma non contribuisci al benessere generale della comunità. Si tratta in realtà del fatto che se non lavori effettivamente inizierà una crisi alimentare per cui i supermercati si svuoteranno, oppure che non ci sarà necessariamente più spazio da nessuna parte per te, lasciandoti a vivere col culo al gelo? Non mi sembra...cibo continuerà ad esserci, case e spazio pure. Ma non lavorare non significa nemmeno non fare niente della propria vita. Uno può perfettamente avere mille interessi, capacità e passioni per rendersi utile agli altri e a sé stesso anche non lavorando. 
In ogni caso sarà difficile che possa sopravvivere in questa società. Nessuno in realtà mette mai in dubbio questo ragionamento. Chi non lavora è considerato un parassita, declassato a inferiore, messo ai margini. Pensiamo ai rom. Non lavorano, non hanno una casa fissa, non mandano i bambini a scuola e riconoscono prevalentemente la trasmissione orale del sapere, più che quella scritta. Parassiti. A me, comunque, la musica rom mi fa impazzire.

Ve la siete mai fatti quella domanda? Vale davvero la pena lavorare?
Farsi una domanda del genere significa ribaltare completamente la scala dei valori che ci hanno insegnato, con cui siamo cresciuti. Uno dei tanti valori che diamo per scontati. Chiaramente la risposta, adesso come adesso, è SI: vale la pena lavorare, altrimenti si finisce male. Ma davvero, credo che valga la pena farsela quella domanda.

Probabilmente molti dei futuri post saranno dedicati a domande di questo tipo. Domande scomode. Domande affatto scontate, che a ben pochi vengono in mente. E a chi vengono in mente, si accantonano in fretta come idealiste, stupide, o perfino sovversive e pericolose per la società. Farsi quelle domande è però relativamente semplice. La parte complicata è poi dare una risposta, ovvero chiedersi: quale può essere l’alternativa? E se c’è, varrebbe la pena provarci?
Beh, voglio anche provare a darla qualche risposta a queste domande, anche solo fosse uno spunto di riflessione. È davvero importante non fermarsi ad accettare le cose per come sono, ma capirne il perché. Continuare ad indagare sempre, non fermarsi mai pensando di aver trovato LA soluzione, ma solo una soluzione. Tutto é migliorabile, se me lo sai dimostrare. È il metodo scientifico.

Immaginati un mondo senza lavoro forzoso, senza fame, senza povertà, senza guerre, senza politica, senza finanza, senza crisi, senza truffe, senza criminali. Immaginati un mondo in cui ognuno fa quello che meglio gli riesce, quello che vuole, senza esserne costretto, per il bene degli altri: volontariato diffuso.


You may say I am a dreamer.



Vedremo.








Nessun commento:

Posta un commento