Recentemente ho letto un articolo di Ugo Bardi, di ASPO Italia (l’associazione
che studia il picco del petrolio). L’articolo, lungi dall'essere catastrofista,
analizzava lucidamente il collasso di una civiltà a noi molto vicina, l’Impero romano, secondo la teoria dei sistemi. E lo faceva a titolo di esempio, visto
che la stessa analisi potrebbe farsi per qualsiasi altra civiltà, ma non a
caso.
Tuttora ci sentiamo i discendenti diretti dell’Impero romano, li
guardiamo con ammirazione e a volte perfino con nostalgia. Li vediamo come una
società pura e retta, libera da fronzoli e in cui valori erano profondi e la
disciplina ferrea. Pensiamo che fu questo a permettergli, a dargli il quasi
sacro diritto, di esportare la cultura in tutto il mondo allora conosciuto.
Già, esportare la cultura. Iniziate a capire dove voglio andare a parare?
L’Impero romano sono le nostre radici, la culla della civiltà moderna
si direbbe. Erano grandi ingegneri, hanno unito l’Europa con le loro strade, i
loro acquedotti le hanno dato da bere e i loro anfiteatri ne hanno portato i
fasti fino ai giorni nostri. Il diritto per come lo conosciamo l’hanno
inventato loro. Si tende a dimenticare però una piccola cosa: anche quella
volta, i romani, non erano gli unici in Europa, né probabilmente i più
civilizzati. Erano civilizzati in quel modo, punto. Il problema è che la storia
la scrivono sempre i vincitori. E pertanto tutti gli altri erano non più che barbari
in attesa di essere civilizzati dai nostri amici a suon di gladio.
A guardar bene l’epopea romana, come fa il signor Bardi, si notano
tante analogie con qualcosa che continua a succedere al giorno d’oggi, proprio sotto
il nostro naso. I romani erano costretti ad espandersi per poter sostenere la
loro struttura imperiale, la macchina burocratica, i lussi dei palazzi e le
potentissime legioni. Avevano bisogno di oro da dare in pasto ai legionari, in
modo che questi continuassero a combattere per loro, per difendere le
frontiere. E che le terre conquistate producessero per Roma, tenendosi per loro
non più che gli avanzi. Ma quest’oro come se lo procuravano? Conquistando nuove
terre e saccheggiandole. Espandendosi. L’Impero romano, per sopravvivere,
doveva crescere. La crescita prima di tutto dunque, interessante no?
E crescere significava semplicemente appropriarsi con la forza delle
risorse di altri popoli, per poter mandare avanti un carrozzone che da solo non
si sarebbe mosso di un dito. Era un Impero drogato, dipendente dall'oro e dalle
conquiste di nuove terre, dalla sottomissione di nuovi popoli. Ricorda molto da
vicino un nostro tipo di dipendenza, quella da petrolio. Anche oggi ci espandiamo, con guerre manifeste
o mascherate, per soddisfare questa nostra assuefazione e mantenere in moto l’economia
petrolizzata. Una macchina che senza oro nero non girerebbe più: campi senza
frutto e ridotti a deserti, strade vuote, supermercati vuoti, luci e acqua
razionate... il collasso della nostra civiltà così come la conosciamo.
Ma prima di parlare di collasso, occorre definire di che cosa si
tratta. Nell'articolo si riprende una definizione illuminante data da un
antropologo studioso di collassi di civiltà, il dr. Joseph Tainter. Il dr. Tainter definisce il collasso come “la perdita di complessità di un sistema”.
Bellissima definizione, chiarissima. Quando una società collassa, vuol dire che è costretta a diventare più semplice. Vista così, non è poi tutto sto ché no? Le società reagiscono agli stimoli esterni, alle crisi, e lo fanno normalmente
aumentando la loro complessità, dotandosi di leggi e strutture più dettagliate
e comprensive. Lo fanno per mantenersi in equilibrio sopra il baratro. Arriva
però un momento in cui questo aumento di
complessità non produce più nessun ulteriore beneficio per la società. Anzi, quando
lo sforzo per mantenere in piedi la baracca così com’è (senza nemmeno più espandersi)
non viene ripagato da un guadagno... allora è quando una società collassa.
Semplice ed efficace. Si torna indietro, un bel po’ magari, fino al punto in
cui il sistema è in grado di auto-mantenersi e perfino di creare un surplus,
per cui conviene ancora alzarsi la mattina e faticare. Altrimenti che lo facciamo
a fare?
Bene, per l’Impero romano questo momento giunse quando non poterono più
espandersi, o non gli conveniva più. A nord i Germani erano tipi troppo tosti e
troppo poveri da combattere per quel poco che potevano offrire. A ovest c’era l’Oceano.
A est i Persiani avevano un esercito sconfinato. A sud c’era il deserto.
Risultato? Niente più oro e ricchezze facili, la macchina si ferma e ci si
rende conto che senza poterla più alimentare per andare avanti, non vale
nemmeno più la pena mantenerla in piedi. Collasso. Si semplifica signori.
La cosa affascinante è che la riduzione di complessità a guardarla
bene fu molto simile a quella che ci potremmo aspettare oggi, dovesse succedere
una cosa del genere: decentralizzazione del potere, i militari che tornano da
frontiere lontane per difendere i nuclei abitati, il ri-sincronizzare produzione
e consumo di risorse. In altre parole, il medioevo. Con i suoi feudi e le sue
città fortificate, con la sua economia cittadina autosufficiente, senza la
burocrazia imperiale.
Non che debba succedere anche a noi, ma almeno analizziamo la cosa fuori
dai denti: i romani dipendevano dall'oro, noi dal petrolio. Nessuno dei due
possiede abbastanza di quel di cui più ha bisogno. Entrambi siamo quindi destinati
a crescere ed espanderci per poter sopravvivere. Entrambi ci siamo inventati
una bella scusa per sottomettere i poveri barbari: loro esportavano la cultura,
noi la democrazia. Entrambi per mantenere il controllo tendiamo ad accentrare
il potere aumentando la burocrazia e l’inerzia del sistema. Non basta per farsi
delle domande?
Per di più: si potrebbe pensare che cause simili per problemi simili lascino
intravvedere soluzioni altrettanto simili. Già oggi in molti, compreso il
sottoscritto, sostengono la necessità per la nostra società di tornare alla localizzazione,
al decentramento del potere e della gestione diretta della propria sovranità, al consumo
legato alla produzione, entrambi locali. All'affievolire quantomeno la
dipendenza dalla droga che mantiene in vita la nostra società, prima che
finisca per davvero.
Per i romani la soluzione, forse loro malgrado, fu il medioevo. Per
noi invece? Il fatto poi che il medioevo sia generalmente considerato come un
periodo buio della storia occidentale, a torto o a ragione, non dovrebbe trarci
in inganno, ma farci fare un passettino ancora in più. La storia e la fisica
seguono semplicemente il loro corso. Forse i sistemi sono inesorabilmente destinati
a collassare, arrivati a un certo punto. Forse è inevitabile, è il modo che il
mondo ha per mantenersi in equilibrio. Fatto sta che a vederlo in anticipo, al
contrario di quanto fecero i romani, magari si potrebbe reagire in qualche modo
che renda la transizione verso quella società più semplice un po’ meno
traumatica. Si potrebbero evitare cose tipo il sacco di Roma, strade divelte,
case in fiamme, razzie, stupri eccetera.
Si potrebbe perfino sperare che quella perdita di complessità che ci aspetta si
possa ridurre. Magari loro avrebbero potuto salvare qualche antica sapienza, qualche
opera d’arte, qualche libro in più.
Non lo sappiamo. Però sappiamo tante altre cose, e varrebbe la pena di
pensarci, di farsi domande del tipo: a che punto siamo? A che punto è la nostra
società sull'autostrada che l porterà inevitabilmente al collasso? Possiamo
almeno frenare prima di schiantarci contro quel muro?
Io, e come me tanti, tantissimi altri, credo di sì. Ma credo anche che
per riuscirci c’è bisogno di aprire gli occhi e vederlo, quel muro. E di
tenerli sempre bene aperti, mentre iniziamo a pigiare sul quel freno, che è ora.
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Per chi volesse approfondire (tutto il materiale è in inglese):
- L’articolo di U. Bardi (versione corta, versione estesa)
- Un altro interessante articolo sul tema: “How civilization falls, a theory of catabolic collapse - J. M. Greer, 2005”
- Video di una conferenza di J. Tainter “Why societies collapse (and what it means to us)”, International Conference on Sustainability: Energy, Economy, and Environment, 2010.
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