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sabato 17 dicembre 2011

Il senso del lavoro, oggi


Oggi partiamo dalla fine. Il lavoro oggi come oggi altro non è che uno strumento di controllo di massa e di denigrazione della dignità umana.

L’essere uomini ci spinge ad avere delle necessitá. Necessità che per forza di cose dobbiamo soddisfare per poter vivere. Nutrirci in maniera soddisfacente, sia per il gusto che per le necessitá nutrizionali. Energia, per poterci riscaldare in inverno, rinfrescarci in estate, darci luce di notte e mille altre funzioni che oggigiorno ci permettono di vivere una vita dignitosa. Una casa, sede della nostra vita familiare e riparo dal freddo e dalle intemperie atmosferiche. Calore umano, quello che la famiglia, gli amici e le persone che ti vogliono bene riescono a darti. Cultura, il prodotto della nostra naturale inclinazione all’esplorare il mondo, a conoscerlo e a tramandare le nostre scoperte per il bene comune. Intrattenimento, per poterci rilassare, divertire e svagare. E lavoro, per sentirci realizzati in quello che facciamo e sentire di stare contribuendo al bene della comunità di cui facciamo parte.

Distorsione

Le dinamiche della societá moderna ci impongono invece di lavorare per poter soddisfare tutti i suddetti bisogni primari. Si tratta di un sistema, niente più, niente meno. Puó essere giusto o sbagliato. Molto probabilmente è stato giusto, ma ora è incredibilmente sbagliato. Obsoleto, è la parola giusta in questi casi.

Dunque l’ipotesi di fondo di questa nostra società è che ognuno deve lavorare per poter guadagnare dei soldi e in questo modo riuscire a soddisfare le proprie necessità. Sin dal formulare l’ipotesi passano del tutto inosservate alcune cose.

UNO. Il lavoro diventa obbligo. Diventando obbligo perde completamente il suo significato originale di realizzazione dell’uomo in quanto contributo alla comunità. Diventa infatti contributo a sé stessi, necessario per la propria sopravvivenza. Il lavoro è ormai per gli uomini quello che gli artigli sono per i leoni: strumento di selezione naturale.

DUE. Il lavoro è condizione necessaria, ma non sufficiente, per la soddisfazione delle necessità unversali dell’uomo. Se non lavori non potrai aspirare quella vita di essere umano che il XX secolo richiede. O se non lavori abbastanza. O abbastanza bene. O se non fai il lavoro adeguato. Forse potrai in parte, forse non potrai affatto.

TRE. Consideriamo legittimo tutto questo. Prendiamo per normale che ci sia gente che muore di fame solo perché non lavora. O che non può permettersi l’università. O che dorme per strada tra i cartoni. Non si tratta di inno alla pigrizia o all’indolenza. Si tratta di diritti umani. Si tratta, anche qui, di giustizia. È questione di chi non riesce vivere in questo sistema, non di chi non ci prova. Di vivere dignitosamente, che non è sopravvivere.

Ne deriva il fatto che siamo del tutto dipendenti dal lavoro. Il lavoro ha perso i suoi attributi positivi per diventare una condanna. Un incubo. Pochi eletti e privilegiati possono dire di fare qualcosa che li realizza nella loro vita. Per lo piú “si tira avanti” facendo qualsiasi cosa ci permetta di campare. Dimenticandosi del fatto che il progresso tecnologico e umano avuto sin qui ci impone di ripensare radicalmente il concetto di lavoro oggi.
Vi pare possibile che quando si conosce qualcuno per la prima volta, dopo il nome e prima del cognome, la prima domanda sia “cosa fai nella vita?” Come se ci fosse una risposta. Come se si potesse fare solo una cosa nella vita. Come se si potesse essere solo una persona nella vita. Il fatto é che non siamo più persone, ma organismi lavoranti. Siamo quello che lavoriamo. Ingranaggi della società.
Come già discusso la nostra società è condannata ad una insana crescita perpetua. Come ingranaggi di questa società siamo portati, siamo chiamati direi, ad essere protagonisti di questo scempio. A comprare compulsivamente e senza alcuna necessità. A dimenticare il vero significato del fatto che siamo al mondo. A non farci più domande, ma a vivere facile e consumare. Semplicemente. A spendere il nostro tempo su questo mondo nella maniera più indolore possibile. A vivere le nostre piccole vite cercando di non dare troppo nell’occhio. Patetico è il nuovo cool. Comprare comprare comprare.
Siamo schiavi del denaro che possediamo. È solo quello che ci permette di fare quello che vogliamo. Solo quello che ci permette di essere chi vogliamo. La conseguenza è evidente: siamo schiavi del nostro lavoro. Senza lavoro ci sentiamo non solo incapaci di fare qualsiasi cosa, ma inetti, perdiamo ogni senso.
La cosa forsa più grave è infatti che ci sentiamo legittimati a giustificare questo senso di inutilità, senza ribellarci all’idea che non sei il tuo lavoro, ma sei sempre e comunque una persona. Con delle aspirazioni, delle capacità, delle speranze e anche dei vizi. Con delle possibilità e delle responsabilità. Invece no, se non lavori sei un non-uomo. Smetti di essere ingranaggio e quindi tutto attorno a te ti spinge a non considerarti degno di questa società. Completamente inutile. Lo scopo della tua vita sarà quello di trovare un lavoro. Ben prima che per soddisfare i tuoi bisogni, per soperire a quel senso di vergogna. Ci si autoingranaggia. È forse lo strumento di controllo di massa meglio nascosto e meglio riuscito a disposizione del sistema per la sua perpetuazione.

Automazione

C’é un altro fatto interessante qui, attuale ora più che mai. La disoccupazione, le sue cause e le sue conseguenze. Sono abbastanza sicuro che nella top 10 delle parole più usate al mondo nel 2011, e in qualsiasi lingua, ci sia la parola crisi. Lo spauracchio della crisi – più che la manifesta follia umanicida di un sistema perverso, lo scempio ambientale che esso comporta, l’ingiustizia perpetrata ad ogni livello e senza battere ciglio – è la disoccupazione. Tanta gente sta perdendo il proprio lavoro, e questo è una vera tragedia. Non c’é ironia nel dirlo, non oso immaginarmi il dramma interiore. Forse tra poco sarò nella stessa situazione, spero di no ma non lo posso escludere a priori. È qualcosa che non si augura a nessuno.
Ciò nonostante, credo che sia necessario rimettere le cose al loro posto, nella gerarchia delle cose importanti.
Spesso si sottovaluta il fatto la disoccupazione sia dovuta non tanto alla crisi, quanto alla congiuntura di una sana economia (una volta tanto) e del progresso scientifico-tecnologico. L’automazione ha reso possibile cose impensabili fino a poco tempo fa. Le macchine fanno lavori umilianti per gli uomini, lavorano 24h al giorno senza lamentarsi e senza vacanze. Lavorano senza stancarsi e in maniera molto più precisa ed affidabile di qualsiasi essere umano. Si chiama efficienza, e va di pari passo con l’economia. Ignorare le possibilità che derivano da tutto questo sarebbe del tutto privo di senso. Eppure tante persone si trovano senza lavoro proprio a causa di ciò. E qui, attenzione, non parliamo di lavoratori immigranti costretti a lavori umilianti che gli autoctoni non vogliono piú fare; qui non parliamo di esportare la produzione per abbassare i costi di manodopera facendo finta di non vedere le pessime condizioni di lavoro e i diritti umani calpestati. Qui parliamo di vera evoluzione del lavoro. Qui parliamo di persone che non sono piu costrette a fare lavori stancanti, pericolosi o denigranti perché il progresso ha permesso che quegli stessi lavori venissero svolti più efficientemente, più economicamente da macchine costruite, programmate e controllate dall’uomo. Qui, signori, si assiste al trionfo dell’uomo. Trionfo che si tramuta, però, in tragedia. Tragedia della disoccupazione.
Si tratta di un processo che non solo non si deve, ma non si può fermare. Qualsiasi impresa, perseguendo la chimera della massimizzazione del profitto, non potrà mai rinunciare all’automatizzazione, che continuerà ad aumentare. Non è matrix; non è la Cina. È il semplice progresso. E viene a beneficio dell’uomo.

Ripensiamo il lavoro

Allora vale la pena ripensare, riformulare il concetto di lavoro in sè. Occorre dissociare il lavoro dalle necessità umane, quelle che ci consentono doverosamente, nel XX secolo, di vivere una vita dignitosa. Il lavoro deve tornare alla sua funzione originale: quella che gli conferiva il ruolo di realizzare l’uomo nello spirito e nel corpo. Quello di rendere degno l’uomo secondo le sue proprie aspirazioni, non di togliergli la dignità.
Il lavoro dev’essere, in altre parole, volontario. Non deve supponere alcuna ricompensa, perchè solo così può essere puro. Solo così ognuno può dedicarsi a ciò che più gli piace, a ciò che meglio gli riesce, al campo in cui può realmente contribuire apportando miglioramenti importanti. E per pura passione. La passione deve tornare ad essere quello che ci muove, non il bisogno.
Perchè ciò sia possibile, dobbiamo fare sì che tutte le necessità di tutte le persone della Terra vengano soddisfatte a prescindere. Indipendentemente da qualsiasi cosa vi venga in mente. A tutti secondo il loro bisogno. Non è un comunismo mascherato. La dicotomia tra capitalismo e comunismo non ha piú senso oggi. Le cose cambiano, il mondo cambia. Se dei concetti potevano aver senso decenni fa, la rapida evoluzione delle cose rende certe definizioni, e le relative contrapposizioni, semplicemente obsolete. La rivoluzione delle telecomunicazioni, della robotica, dell’automazione, le nanotecnologie, sono tutte cose sconosciute appena qualche decennio fa. Vale la pena provare a vedere se con lo stato attuale delle conoscenze tecnologiche sarebbe possibile soddisfare il bisogno di cibo, energia, casa e beni di prima necessitá per TUTTE le persone. E perchè no, anche i beni di seconda e terza necessità. Nel momento in cui questo sia possibile, DEVE essere fatto. DEVE anche essere fattibile.
Liberi dalla schiavitú del lavoro, ognuno sarebbe libero di contribuire al bene dell’umanità senza altra ricompensa che non sia il fatto stesso di star contribuendo al bene dell’umanità. Ognuno nel suo piccolo, ognuno con quello che gli riesce meglio, ognuno con la sua passione e i suoi mezzi.

Per chi se ne è accorto, le cose stanno già iniziando a funzionare così. Sempre di più. Guardate in informatica, guardate gli open source. Non essendo un esperto, ve ne cito solo alcuni: linux, wikipedia, i social network ect. Rivoluzioni vere e proprie. Tutti nascono dal tempo che persone, professioniste o no nei loro campi, dedicano  gratis  al progetto in cui credono. Senza altro beneficio che il fatto di vederlo realizzato. Tutto questo oggi, ora. Nella società che si regge sul denaro, il profitto e il lavoro per mangiare. Immaginate quello che sarebbe possibile. L’era della competizione non esiste più. Oggi è l’era della cooperazione.

Superiamo la visione standard delle cose. Torniamo a chiederci quale sia il senso della vita. Torniamo a farci domande senza risposta. Interroghiamoci sul perché camminiamo su questo mondo, non diamolo per scontato. Non viviamo alla leggera. 




lunedì 31 ottobre 2011

Stand up


Il collegamento é facile da fare. Bob Marley cantava

“Stand up for your rights” - alzati in piedi per i tuoi diritti, ergiti a difensore della tua dignitá umana.

Ci sembra cosí lontano questo richiamo, nel tempo, nello spazio…associato a popolazioni intere che si ribellavano ai vecchi colonizzatori per avere riconosciuti i propri diritti, quei diritti che sono indispensabilmente riconosciuti ad ogni uomo.

Un richiamo cosí separato dalla realtá in cui viviamo, quasi innecessario da fare ora, qui...

Purtroppo, peró, non é cosí.

Viviamo in un mondo in cui lo sdegno per l’ingiustizia e la mancanza di buonsenso é ormai sopito sotto le macerie di un sistema che sforna milioni di persone autoconformanti, stampate ogni giorno in grande quantitá. Tutti uguali, tutti con lo stesso logo stampato addosso, tutti piatti, tutti con la stessa inconscia paura di fare un passo fuori dalla linea. Pena: l’ignoto, il caos probabilmente.

Ecco allora perché alzarsi in piedi. Qui e ora.

Per riaffermare la nostra dignitá di esseri umani. Di individui, di persone uniche e pensanti, al di fuori da qualunque stadard ci possano imporre. Siamo complesse unitá di pensiero ed emozioni, che si fondono insieme in societá ancor piú complesse...in sistemi decisamente non uniformi, vivi e constantemente in evoluzione. In questo momento credo che la necessitá sia quella di fare un passo fuori dalla massa incolore, di alzarsi in piedi e gridare con tutta la forza che si ha in corpo “io ci sono ancora!”, di riaffermare la nostra individualitá e la nostra capacitá, la nostra necessitá di forgiare ognuno per sé il proprio futuro, il proprio cammino. Criticamente, consciamente. Cogito ergo sum.

Il nostro piccolo mondo si sta ampliando inesorabilmente e ci lascia nudi...nudi di fronte alla pochezza di ció che fino ad appena un momento fa credevamo solido come la roccia. La nostra percezione delle cose, le nostre motivazioni, la nostra abilitá di ragionare e di trarre conclusioni, la nostra voglia di fare possono espandersi talmente tanto da rischiare un senso di vertigine. Cosí a volte puó succedere anche che quel lumicino che arde flebile come una candela dentro di ognuno di noi inizi all’improvviso a crescere, sempre di piú...inesorabile, fino a diventare fuoco che arde e ci consuma. Capisci che non si tratta piú di qualche luogo lontano in qualche momento storico, ma che si tratta di qui e ora. Di fronte all’abisso del tutto, dell’ovunque e del sempre, capisci che l’unica cosa che ha importanza é il qui e l’ora.

E allora capisci che é ora di rimboccarsi le maniche e fare qualcosa. Qualsiasi cosa. Ognuno secondo le proprie possibilitá, il contributo che puoi dare é insostituibile. E allora in piedi, si comicia...





Mi alzo in piedi contro l’ignoranza perché credo che ce ne sia bisogno. Perché non si parla piú, tante volte, al di lá dei luoghi comuni e delle banalitá. Perché la cultura é mercificata e disprezzata, soppiantata da falsi valori che ci rendono ciechi di fronte allo scempio quotidiano che abbiamo davanti. Per tornare ad essere arbitri delle nostre scelte e smettere di essere burattini.

Mi alzo in piedi perché c’é bisogno di consapevolezza. E il primo passo per risolvere un problema é riconoscere di averlo.

Perché dopo aver assorbito quanto possibile fino ad ora, é forse arrivato il momento di fare la mia piccola parte; aspettare di piú non avrebbe senso, sarebbe tempo perso.

Mi alzo in piedi contro la paura del diverso e la mancanza di dialogo. Mi alzo in piedi contro la paura dell’ignoto.

Mi alzo in piedi contro l’immobilitá che ci avvolge e ci stordisce. Immobilitá fisica, sociale, culturale...ci siamo tutti immersi fino al collo. E puzza.

Abbiamo di fronte a noi un’era fantastica. Parole che girano alla velocitá della luce, che rimangono scoplite per sempre nell’etere e nelle menti di chi le ha condivise. Hanno il potere piú grande che ci sia stato concesso, spesso sottovalutato: quello che deriva dalla volontá, dalla dedicazione a una causa, dalla voglia di far sentire la propria voce, dalla necessitá di affermarsi come persona e distinguersi dalla massa...come essere umano, come entitá pensante individuale, unica e per questo da rispettare. E da ascoltare. Possibilitá finora mai offerte che sono lí, pronte ad essere colte da chiunque lo voglia.





Voglio che questo spazio serva a motivare il pensiero e la riflessione, che sono l’anticamera dell’azione. Voglio che spinga a far nascere qualche opinione personale, rispetto magari a problemi finora nascosti o anche solo ignorati, animando poi alla discussione. Perché spesso siamo troppo pigri anche per unire qualche sinapsi, e diciamo pure che qualcuno in questo preciso momento ci sta godendo come un riccio.

Quello che questo spazio non vuole essere é invece un mezzo di comunicazione unilaterale. Tutto quello che scrivo rappresenta un tremolante punto provvisoriamente raggiunto nella mia visione delle cose, dopo una serie di eventi ed esperienze che in quasi 28 anni di vita mi hanno portato ad essere la persona che sono. Qui e ora. Probabilmente rileggendo queste pagine in futuro proveró tenerezza o un accondiscendente senso di divertimento per quel ragazzo che scriveva. Ma non é questo il punto.
Chi scrive non crede nella perfezione intesa come stato ultimo da raggiungere o raggiungibile in sé; crede nel continuo miglioramento. Lo stesso vale per la conoscenza; é una chimera che inseguiamo quotidianamente ma non raggiungeremo mai; é proprio la conoscenza raggiunta che ci spinge a farci nuove domande, porci altri quesiti cui rispondere...

é la costante ricerca di un’irraggiungibile perfezione a farci migliorare

é la conoscenza stessa a farci capire che non ne avremo mai abbastanza

Credo nel miglioramento continuo e senza limiti, e credo sia possibile solo attraverso uno sforzo di apertura mentale. Un’inesorabile convinzione di essere costantemente in viaggio verso un posto migliore. Una sorta di zingaraggio mentale. In cui é il viaggio stesso peró a meritare attenzione, perché la meta in realtá non esiste.
In definitiva, mi piacerebbe che questo spazio di riflessione servisse sí per potervi comunicare le mie idee, ma anche per poter ricevere contributi da chiunque (C H I U N Q U E) e imparare da tutti (T U T T I).

Per migliorare costantemente ed evolvere la mia visione delle cose in qualcosa che mi possa aiutare ad essere una persona migliore

per aiutare gli altri

magari, anche ad alzarsi in piedi.